Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà

vittadini1.jpg “… lui un’idea di come far ripartire l’Italia, la società, le imprese, la scuola ce l’ha bene in testa e s’appoggia, dialoga e litiga con chi questa idea la condivide o l’avversa…”

di Emanuele Boffi

Tanto per non girarci troppo intorno: ma che diavolo è questa sussidiarietà? C’è in Italia una strana sagoma d’uomo che da tre lustri non fa altro che ripetere in ogni dove: sussidiarietà, sussidiarietà, sussidiarietà. Si chiama Giorgio Vittadini, fa il professore di Statistica a Milano, viene dalla Bassa, capelli ricciolini e due mani a foggia di badili. Vittadini è stato fondatore e presidente della Compagnia delle Opere e oggi presiede la Fondazione per la sussidiarietà. Ha questo pallino della sussidiarietà e ne parla con tutti, dal presidente della Repubblica al giornalaio sotto casa: sussidiarietà, sussidiarietà, sussidiarietà. Del movimento ecclesiale di Comunione e liberazione, Vittadini è conosciuto come ilvitta, scritto tutto attaccato senza spazi tra articolo e nomignolo, pronunciato con un’unica emissione di fiato, ilvitta è il tipico personaggio da aneddoto, e non è difficile, chiedendo di lui, sentirsi dire: “Ma lo sai l’ultima che ha combinato ilvitta?”. Perché, lo si proclami come premessa antropologica, Vittadini è di quella specie di uomini ipercinetici che soffrono a fare qualsiasi cosa lentamente e con agio. Tutto al contrario, non riesce a fare a meno di compiere tre azioni simultaneamente e alla rapidità di uno shuttle. Come per ogni personalità bizzarra su di lui s’accumulano storielle, in cui la parte mitologica spesso si frammischia a quella reale, tanto che, alfine, è impossibile scindere la prima dalla seconda. C’è chi narra d’aver intrattenuto con lui dialoghi alla fermata del tram mentre il nostro risolveva sul retro di uno scontrino un’equazione di terzo grado, rispondeva alle domande dell’interlocutore ascoltandolo con un orecchio, mentre con l’altro origliava la segreteria telefonica del cellulare, seguiva con un occhio il labiale dell’amico e con l’altro, con palpebra a mezz’asta, schiacciava un pisolino. Altri narrano d’averlo visto immergersi in una piscina completamente bianco come una crema doposole, ma così impomatato ma così impomatato d’aver sbiancato l’acqua e tutti i natanti presenti. Altri rammentano di scommesse inenarrabili ai tempi dell’università, quando il nostro, un po’ per goliardia un po’ per testardaggine, era disposto a fare di tutto. E quando scriviamo tutto, intendiamo proprio tutto.
Sta di fatto che quest’uomo ha fatto resuscitare nel dibattito pubblico italiano una parola, e avete capito quale, riuscendo persino a farla scrivere sulla Costituzione e, forse l’avrete notato, è stata la parola “sussidiarietà” molto citata durante questa campagna elettorale, sia dagli esponenti del centrodestra (soprattutto), sia da quelli del centrosinistra (più centellinata). Il merito è delvitta che alla questione non ha solo intitolato la sua fondazione, ma persino un allegato al Riformista, un sito e un intergruppo parlamentare. Poi, alla fine, il busillis rimane tale e così uno si chiede: vabbé ma che è ’sta sussidiarietà? Pare, e dico pare, che una volta ilvitta chiamò i suoi più stretti collaboratori e non disse “sussidiarietà”, ma, a sorpresa, “capitale umano”. Poi spiegò per filo e per segno il nuovo affare: e cos’era il capitale umano, e a cosa serviva, e che prospettive apriva, e che cosa si poteva fare. Non mancò certo nemmeno il riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Pare che dopo cotanta spiegazione, che era stata seguita con cenni d’assenso dai presenti, ad uno, il bertoldo di turno, venne in mente di chiedere: “Scusa vitta, ma che diavolo è ’sto capitale umano?”. “è la sussidiarietà, imbecille”. La questio si concluse con un significativo “ah” del bertoldo.
 
Ora, parlando meno per celia e con parole più dabbene, bisogna aggiungere che ilvitta per la sussidiarietà darebbe un rene. Una volta capitò che dopo aver illustrato in lungo e in largo il concetto a un famoso potente, questi lo interruppe dicendo: “Senta, ma non mi dica che lei ci crede veramente a queste cose?”. Dio quel giorno non era distratto e fu così che infuse nelle viscere del nostro una santa pazienza e non lo fece reagire, a parte qualche urlo e improperio. Fu solo grazie a quell’intervento ultraterreno che oggi non abbiamo un potente in ospedale e un professore universitario agli arresti domiciliari. Sta di fatto che, essendo ilvitta l’incarnazione delle sussidiarietà, ha fatto del bene a migliaia e migliaia di persone. Se ilvitta fosse solo un attimino meno paffutello, e se gli si potessero segare le gambe dalle ginocchia in giù, certo sarebbe del tutto simile a Madre Teresa di Calcutta, forse persino un filino più carino. Perché, e questa è una verità di fede sussidiaria, non c’è in Italia persona che ha risolto più problemi delvitta. Soprattutto non c’è persona che dopo averlo visto e sentito non abbia capito subito, di schianto e in un baleno, che diavolo sia mai questa benedetta sussidiarietà. Perché, poi, è una cosa che si capisce anche se uno non ha il master ad Harvard, basta dire che la sussidiarietà è la libertà di prendersi dei rischi e delle responsabilità. O che la sussidiarietà è «avere gli occhi della tigre» (sì quelli di Rocky III, lo ha spiegato lui di recente), cioè voglia di fare, rischiare, amare. Che è quello che fa ilvitta, poi, di fatto, da mane a sera.

Parole antiche cioè nuove
Ora, dovete sapere che alvitta lo accusano di essere “trasversale”, che vuol dire – nel sottotesto dell’accusa – che Franza o Spagna basta che se magna. La verità è però che lui un’idea di come far ripartire l’Italia, la società, le imprese, la scuola ce l’ha bene in testa e che s’appoggia, dialoga e litiga con chi questa idea la condivide o l’avversa. A volte, diciamo la verità, pure lui un po’ esagera, ma gli va comunque concesso e riconosciuto di essere lealmente coerente con le sue idee e i suoi ideali. Sono gli altri che ondeggiano, lui la barra la tiene dritta anche con la burrasca. E la cosa impressionante è che, suo malgrado forse – ché certo al titolo non ci tiene –, è un vero opinion maker, di quelli che sui giornali viene letto non solo dagli altri opinion maker, ma anche dalla massaia di Gudo Gambaredo.
Per dire: settimana scorsa ci sono state le elezioni e, mentre tutti consumavano le meningi per analizzare cosa era successo, lui ha rilanciato. Prima ha asserito che «questo voto più di altri, è il voto del popolo contro l’establishment», poi ha tirato una legnata a quegli «intellettuali e alcuni dei giornali più importanti d’Italia che solo due anni fa inneggiavano alla coalizione progressista, egemonizzata culturalmente dalla Rosa nel Pugno», quindi ha passato in rassegna i perdenti, dal «disastro del governo Prodi», alla «sinistra radicale, giustificata moralmente da un certo cattocomunismo», al «nuovo centro che vuole fare l’ago della bilancia ponendo la novità sullo schieramento anziché sul cambiamento», infine ha spiegato che il successo «di proporzioni insperate del centrodestra e della Lega», non è stato solo un voto di protesta, ma anche di proposta, perché «un esempio di un nuovo modo di governare» – come rappresentato dalla Lombardia e dalla sua «svolta sussidiaria» (sempre lì si torna) – ha convinto le persone semplici. Eppure, alla fine di questa analisi, ilvitta non ha stappato la bottiglia di champagne, ma ha scritto una cosa che solo lui, in Italia, potrebbe scrivere: «Non basta al centrodestra aver vinto le elezioni: senza un cambiamento antropologico e culturale si finirebbe per rendere scontenti ancora gli italiani. Occorre a livello popolare la ripresa dell’educazione a una fede e a valori ideali che hanno dato al nostro paese le motivazioni e l’intelligenza per superare la crisi». Ha cioè ilvitta usato parole così antiche (popolo, ideale, fede, educazione) da apparire quasi nuove. Un po’ come per la sussidiarietà, che non l’ha mica inventata lui, epperò è certo che se non la resuscitava è sicuro che sarebbe rimasta sepolta nei vocabolari.
Per questo, oggi, ilvitta va in giro a dire che la soluzione per l’Italia è una vera politica di sussidiarietà, che vuol dire che lo Stato deve garantire l’ordine e punire gli indisciplinati. Ma poi basta, deve lasciare libere e casomai favorire tutte quelle forze e quella creatività che è connaturata al cromosoma italiano. Non ingripparla con la burocrazia, vessarla con le imposte, blandirla con le prebende. Deve lasciare libera la società e quindi i singoli di fare loro, di mettersi insieme fra loro, in una logica di solidarietà che crei una competizione non fra cannibali ma fra alleati. Se succede questo, proclama ilvitta, si riparte. Altrimenti è il disastro. I problemi, però, prosegue ilvitta, sono due: a) la politica italiana che non capisce («a parte Enrico Letta nel centrosinistra, che però, appunto, è nel centrosinistra e Giulio Tremonti che, mi dicono, ha scritto un libro bellissimo che voglio leggere. D’altronde il Tremonti di oggi è quello del 5 per mille, è quello che più sento vicino alle mie idee»); b) la mentalità comune che è contro chi ama il rischio e l’avventura. Perché oggi non sappiamo più chi siamo né dove andiamo (diceva Rémi Brague, citato dalvitta nel suo volume Il Capitale umano: «L’Europa sa produrre dei beni e del bene; in compenso, è diventata incapace di dire perché sia un bene che ci siano uomini per vivere una tale vita»).
Eccoci, finalmente, arrivati al centro del mirino. Se non si capisce da dove ilvitta fa nascere la sussidiarietà, non si capisce nemmeno che sia e a che serva. Per dire: settimana scorsa ha passato una sera all’associazione In-Presa, in un paesino della Brianza, Carate. In-Presa aiuta ragazzi in difficoltà, dà loro una formazione da elettricisti o cuochi e li manda a fare degli stage nelle piccole e medie aziende in zona. Settimana scorsa a In-Presa c’erano un centinaio di questi piccoli e medi imprenditori a cena con lui e ognuno di loro, tra una forchettata e l’altra, ha posto alvitta un po’ di domande.
 

Banchieri insegnanti carcerati
Questioni delle più varie, ma non strettamente politiche, sia chiaro. Si partiva dai ragazzi che erano stati loro affidati («questo mi arriva tardi al lavoro, quest’altro è sempre annoiato, quest’altro ancora mi fa perdere le staffe»). E ilvitta rispondeva e spiegava a tutti che quello che loro stanno facendo, con fatica e pazienza, è proprio un bell’esempio di sussidiarietà, perché c’è dentro tutto il gusto della vita. «L’imprenditore chi è? è colui che rischia. Ecco voi avete capito che non basta rischiare sul prodotto, sull’oggetto, occorre rischiare anche sull’umano. Significa comunicargli una passione, e per trasmetterla occorre innanzitutto che la viviate voi. Occorre, facendo, scoprire il senso del lavoro e non ripetere solo delle istruzioni meccaniche. Occorre aiutare la libertà un po’ instupidita di questi ragazzi ad esprimersi, responsabilizzandoli e sfidandoli. Occorre non solo fare l’analisi di ciò che non va, ma condividere con loro problemi, fatiche, fallimenti. Così vi accorgerete che aiutando loro state aiutando voi stessi».
Ecco, insomma, ilvitta è questo qui. Che va in giro a dire queste cose qui, e a partire da queste cose qui ci ha costruito sopra il cuore della sua idea di sussidiarietà. E la vicenda si fa balzana quando, guardando chi lo guarda, ci si accorge che riesce a farsi ascoltare da tutti. Mica solo gli imprenditori, poi. Ilvitta parla anche con insegnanti e banchieri, carcerati e intellettuali di prestigio. Se riesci a comunicare loro questo cuore poi è fatta: si passa a parlare di equilibri politici, investimenti, import-export, programmi, l’aggressività della Cina e le tasse di Padoa-Schioppa. Ma se gli fate saltare il passaggio, e avete fretta di arrivare alle conclusioni, agli addentellati, alle chiose a margine, senza avere la pazienza di ascoltare su che cosa lui sta scommettendo la vita, s’infuria come una iena. Il perché è presto detto: è la sussidiarietà, imbecille.

tratto da: tempi.it

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