Fondi sovrani e finanza islamica

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di Domenico Di Pietro*

La scena finanziaria internazionale con le sue attuali “turbolenze”, vede al centro dell’attenzione da qualche tempo, due fenomeni importanti: i Fondi Sovrani e la finanza islamica. Tecnicamente siamo di fronte a due temi diversi che però a ben guardare possono avere punti contatto dal punto di vista filosofico-religioso e quindi per quanto concerne l’ispirazione delle linee strategiche e operative.
Tra i punti di contatto gli studiosi evidenziano la relazione fra mondo arabo e mondo islamico che molto spesso possono coincidere ma frequentemente sono realtà che non hanno nulla da condividere.

Gli studi e le analisi devono avere il compito di fare chiarezza descrivendo con puntualità le caratteristiche funzionali e strutturali dei fondi sovrani in modo particolare di quelli facenti riferimento a Stati arabi e quelli del variegato complesso di attività finanziarie ispirate alla legge islamica anch’esse localizzate in paesi arabi ma, specie recentemente, anche in altre aree dove risiedono comunità islamiche di origine varia.

Per quanto concerne i Fondi Sovrani, che rappresentano veicoli di investimento di proprietà di governi, creati per gestire e amministrare le disponibilità finanziarie generate da surplus della bilancia dei pagamenti e dalla vendita di materie prime, i dubbi anche di natura politica non sono svaniti del tutto specie perché molti dei Fondi fanno capo a paesi con regimi non sempre democratici e spesso ispirati a obiettivi non completamente in linea con quelli dei paesi dove si svolge la maggior parte dell’attività finanziaria mondiale.
In risposta ai dubbi da parte dei Governi e delle autorità di vigilanza, i manager dei fondi sovrani tengono sempre ovviamente a precisare che i loro i investimenti non sono speculativi e rispondono a logiche di lungo periodo tendendo a massimizzare il valore di portafoglio tramite una corretta ed efficiente diversificazione.
 
Alcuni dei più importanti Fondi Sovrani sono di proprietà di governi arabi le cui strutture legali e commerciali si richiamano in modo esplicito all’Islam. Questa coincidenza tra vita economica e struttura dello Stato richiama alla possibilità che i Fondi Sovrani arabi di cultura islamica vogliano gestire le società acquisite secondo i principi della Sharia’ah, la legge Islamica.

Su questo tema e sulla “capacità di adattamento” – come ha scritto Giorgio Vercellin docente di Storia ed Istituzioni del Vicino Oriente alla Cà Foscari di Venezia – :“nonostante la pretesa di essere legge rivelata da Dio, la Sharia’ah si è storicamente sviluppata ed evoluta adattandosi alle diverse realtà, anche perché essa era al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di ciò che oggi chiamiamo sistema giuridico”. In base, comunque, al Protocollo di Santiago, la risposta alle varie preoccupazioni dei Governi dovrebbe essere negativa. Come scrive e rileva Federica Miglietta – ricercatrice universitaria ed esperta di Finanza islamica -“l’islam è un modus vivendi, compenetrazione tra religione e vita sociale ed economica: l’homo oeconomicus (islamicus), per essere sintetici, agisce sempre secondo la Shari’ah. Per questa ragione, nei paesi islamici esiste una economia religiosa che non ha precedenti nella storia europea e suona esotica alle orecchie degli economisti occidentali”. Di tutte questo, invece, sarà necessario tenerne conto per ragioni strategiche e geo-politiche.

Per quanto concerne nello specifico la finanza islamica, possiamo affermare che si tratta di un fenomeno che ha avuto uno sviluppo vertiginoso e che gli esperti pensano sia destinato a proseguire con forza anche in futuro.
Questo fenomeno è fatto di aspetti di natura economica e finanziaria ma soprattutto di tipo morale.

Certamente rimane centrale il problema del livello e delle modalità di integrazione della finanza islamica nel mondo finanziario tradizionale. Questo per almeno tre ordini di motivi: le conseguenze dei principi religiosi e della interpretazione della legge islamica in rapporto al condizionamento del mondo finanziario; la necessità di standardizzare i prodotti rendendoli concorrenziali nei riguardi di quelli tradizionali; il rischio di perdere l’identità originale. Le attività finanziarie esigono certezze e chiare regole del gioco.
La finanza islamica assume caratteristiche variabili da un caso all’altro, e questo non facilita lo sviluppo delle transazioni, e rappresenta un freno alla mobilità e soprattutto alla liquidabilità degli investimenti della clientela.

Sappiamo ad ogni modo che l’Islam rappresenta uno stile di vita e che non esiste nell’Islam una differenza tra lo Stato, le sue regole, l’economia e la religione: tutto è din-wa-dunya, niente può essere scisso dal Corano. Anche la finanza islamica è basata sul Corano, sui suoi principi e sulle sue prescrizioni. Quindi per ragionare di finanza islamica è necessario liberarsi dall’assioma, tipico della finanza occidentale, secondo cui religione, etica ed economia viaggiano su binari separati. Il pensiero occidentale è in massima parte laico.  L’economia ed i sistemici economici islamici, come detto, sono modellati secondo la Shari’ah, la legge islamica che regola, oltre la religione, ogni aspetto della vita, comprese le questioni economiche. E’ impossibile comprendere l’economia islamica senza delineare l’”ambiente intangibile” islamico, cioè un ambiente dominato dall’ideologia, frutto diretto della religione. Intangibile non vi è dubbio, ma con una importanza che è necessario tenere presente per non essere costretti ad incorrere in errori di prospettiva.
Il Corano detta tutte le regole e le leggi che caratterizzano la vita dell’uomo virtuoso, che per conformarsi al libro sacro, deve osservarne tutti i comportamenti, ivi compresi quelli economici. I fedeli mussulmani, dunque, devono ottemperare nel loro agire, in qualsiasi situazione della vita alle regole coraniche.

Le basi dell’economia islamica si possono sintetizzare in un richiamo costante alla giustizia, alle pari opportunità ed alla ripartizione della ricchezza facendone partecipi i poveri i malati e gli orfani. I principi chiave sono la giustizia e l’equità. Vi è un certo imbarazzo, invece, tra gli stessi economisti islamici nel dover spiegare per quali ragioni alcuni paesi arabi, nei quali vige l’economia islamica, siano caratterizzati da una forte disuguaglianza in termini di reddito tra gli abitanti. Di solito si attribuisce queste disuguaglianze ad un imperfetta aderenza al Corano e si propone una interpretazione dei movimenti “puristi” che predicano il ritorno alle origini della religione.
In campo islamico la ricchezza e lo sviluppo puntano a raggiungere il “giusto rendimento” derivante dallo sviluppo economico, per il miglioramento della società. Il concetto di società e di welfare, in questo contesto è riferito alla Ummah, la nazione mussulmana, ovvero la comunità dei credenti.

Sappiamo che l’Islam incoraggia l’uomo ad utilizzare tutte le risorse che Dio ha messo a sua disposizione; uno scarso utilizzo corrisponderebbe ad un comportamento ingrato nei confronti del Creatore. La ricchezza, ed il profitto che ne consegue, non rappresentano, però un fine, ma solo un mezzo per raggiungere gli scopi alti e puri che la Shari’ah propone all’uomo.
Studiando la finanza islamica è opinione diffusa, ma inesatta, che la religione coranica proibisca il tasso di interesse e che dia origine, da un punto di vista religioso, ad una prohibition driven finance. In pratica ad una finanza basata sulle proibizioni, di tipo interest free. Vi è una critica posta alla finanza islamica che trae origine dalla forma di alcune strutture contrattuali che sembrano dei sotterfugi contabili per contravvenire alle proibizioni e attenersi alle prescrizioni. Qualcuno afferma che si tratta solo di una finanza “di apparenza” o non contenga invece una “sostanza” e, in questa seconda ipotesi, come si spieghino termini come “mark up” oppure “cost plus” che sembrano un sostituto del tasso di interesse mascherato sotto altro nome.

La risposta è da ricercare nel contesto identificato come “situazione di intensità culturale”. In pratica un legame tra comportamenti economici, intenzione e predisposizione mentale, che spiegano quelli che, ad una prima analisi, sembrano solo comportamenti di facciata. Nel diritto mussulmano vige il concetto di “intenzione”, da formularsi mentalmente o espressamente e che vincola il fedele nei propri comportamenti.
I concetti base di cui occuparsi volendo approfondire l’analisi si riferiscono: alle regole relative alla validità dei contratti e al rapporto tra finanza coranica e il tasso di interesse; al concetto di gharar e quindi alla mancanza di conoscenza relativa ad un elemento essenziale della transazione che invalida il contratto; allo schema fondamentale della finanza islamica che è la condivisione dei profitti e delle perdite.
La condivisione dei profitti e delle perdite rappresenta uno dei cardini dell’impianto economico islamico. Si narra che Il Profeta abbia in modo espresso spiegato che si ha diritto al guadagno solo se si è pronti alla condivisione del rischio. In pratica profitto e rischio sono legati. La partecipazione che lega il profitto alle perdite rappresenta il punto focale che distingue un affare lecito (halal) da uno illecito (haram).
Possiamo concludere dicendo che la finanza islamica è di tipo reale e quindi basata sulle combinazioni produttive. Essa si rivolge alla creazione di asset reali. Essa tende a “raccomandare ” più che a proibire.  L’intenzione è quella di tendere a creare un mondo più equo e più solidale.

I concetti fondamentali dell’economia e della finanza islamica ci pongono, comunque, di fronte a riflessioni  importanti. Tariq Ramadan – intellettuale e professore di Studi Islamici a Oxford – scrive che:” si presuppone che il mercato sia in grado di autoregolarsi attraverso l’equilibrio delle forze in libera competizione tra loro, nel tentativo di guadagnare di più, più in fretta e prima degli altri. Si tratta di una illusione stravagante, pari a quella di esigere il rispetto dei diritti democratici in una società che si veda imposto il coprifuoco militare. Bisogna dunque impegnarsi in una ridefinizione dei termini e degli obiettivi alla luce delle finalità superiori: ridefinire l’essenza del benessere, della libertà e della solidarietà intermini diversi da quelli quantificabili e legati alla produttività. Il concetto di sviluppo deve essere integrato in una riflessione più ampia sulla dignità dell’uomo, sul suo equilibrio e sulla sua autonomia di essere e di soggetto”.

* Centro Studi Internazionali Roma

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