Lectio magistralis di Massimo D’Alema sul tema della “Governance Globale” parte 2/3

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La deregulation nucleare, è un’altra minaccia di cui oggi abbiamo maggiore consapevolezza: penso alla proliferazione di matrice “individuale” come quella innescata dallo scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, produttore di ordigni nucleari per stati committenti, oppure al possibile ricatto di “stati canaglia”, od anche al rischio che armi nucleari finiscano nelle mani di organizzazioni terroristiche o criminali. Questa minaccia nasce proprio da uno dei fenomeni più inquietanti del nostro tempo, quello dei cosiddetti “Stati falliti”: si tratta di Stati che non hanno un governo efficace nel loro territorio e nei quali si insediano nuove forme di criminalità transnazionale che assumono forme di potere sovrano, extragiuridico ed arbitrario.
E tornano infine d’attualità tragedie che sembravano dimenticate: non soltanto guerre etnico-religiose come avvenuto nei Balcani, ma persino la pratica della schiavitù e del traffico degli esseri umani.

Gli effetti meno positivi della globalizzazione provocato fenomeni di rigetto, il ritorno di populismi, di posizioni neo-nazionalistiche, di protezionismi. Lo abbiamo visto persino nel nostro continente, nei paesi dell’Europa allargata. Ma ciò si è verificato anche negli Stati Uniti, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Congresso, in cui molti candidati si sono imposti sulla base di piattaforme fondate sul nazionalismo economico: questo è l’aspetto meno apprezzabile dell’ascesa di molti candidati del Partito democratico, il cui rifiuto della guerra si accompagna ad una sorta di neo-isolazionismo e anche di protezionismo.
Vi sono inoltre segnali preoccupanti che indicano un crescente pessimismo sulle aspettative future. Un recente sondaggio condotto per conto del “World Economic Forum” ha indicato che solo il 19 % degli europei e solo il 26 % degli americani crede in un futuro più prospero per la nuova generazione. In questo c’è una profonda frattura tra il sentimento delle nuove generazioni nei paesi più sviluppati e il sentimento delle nuove generazioni in molti dei grandi paesi emergenti. Noi viviamo in questa parte del mondo, che è stata definita da acuti psicanalisti “quella delle passioni tristi”, in cui le nuove generazioni si attendono un futuro peggiore di quello dei loro genitori e la “molla ad agire” è più la paura del peggio che non la speranza del meglio.
I grandi paesi emergenti vivono un sentimento diverso: il sentimento dell’aspettativa di un mondo migliore che determina una grande energia sociale. Io credo che anche per questo noi abbiamo bisogno di favorire una interazione intensa e costruttiva delle civiltà, e promuovere la condivisione delle esperienze.
Le incertezze ed i dilemmi di sicurezza del mondo globale hanno in alcuni casi sollecitato risposte di tipo militare ed unilaterale. Abbiamo già parlato degli Stati Uniti in Iraq, ma potremmo parlare anche di Israele nel Libano. In tutti questi casi la complessità e spesso l’elusività della minaccia asimmetrica ha frustrato i tentativi di affrontare e risolverne le cause più profonde.

E’ chiaro che la guerra in Iraq costituisce un caso emblematico di non coincidenza tra debellatio e vittoria, tra conflitto tra stati e eliminazione della minaccia. Non appena vinta facilmente la guerra contro lo Stato iracheno è iniziata la vera guerra contro il terrorismo internazionale. La guerra tra gli Stati non solo non ha fornito una risposta, ma ha fornito al fenomeno del terrorismo un potente elemento di alimentazione. Una volta, quando il nemico era uno Stato, se ne occupava il territorio e si vinceva la guerra. Ma se, come avviene oggi, il nemico non è uno più uno Stato, con l’occupazione del territorio la guerra diventa più terribile di prima. Ancora non esiste una dottrina, neanche militare, su come affrontare questa nuova minaccia e abbiamo avvertito in questi anni anche un gap culturale che ha reso più difficile lo sviluppo di un’azione efficace in grado di contenere efficacemente questi fenomeni.
Questo gap riguarda anche noi, che siamo stati critici verso l’unilateralismo: abbiamo potuto in modo efficace dimostrare la fallacia di quella politica, ma certamente incontriamo molte difficoltà nel mettere in campo una strategia alternativa. E’ evidente cioè che tutti questi tentativi di cui ho parlato hanno in comune un limite culturale: le sfide globali del mondo complesso attuale richiedono risposte globali. La forza del mondo globale e complesso tende a resistere alle risposte “in forma semplificata” proposte, ad esempio, dal neo-sovranismo.
Il punto principale che mi preme sottolineare è che l’unilateralismo, i nuovi nazionalismi, e anche un certo pessimismo di fronte al mondo globale, denotano in sostanza un deficit della politica. La globalizzazione economica e l’evoluzione del contesto della sicurezza internazionale sono avanzati ad un ritmo più veloce della politica. Ci troviamo di fronte ad un’evidente asimmetria e la comunità internazionale non è riuscita a rispondere tempestivamente ed efficacemente sul piano della governance alle nuove sfide del mondo globale.
Avvertiamo dunque il bisogno di una risposta politica, di adeguare regole ed istituzioni alla realtà attuale, il bisogno appunto di quel multilateralismo efficace, che è il tema intorno al quale lavorare.

Sono tre i punti principali che vorrei trattare: il primo riguarda il ruolo delle istituzioni internazionali per fare fronte a queste sfide e tradurre in pratica la prospettiva del multilateralismo efficace; il secondo tema riguarda l’agenda globale, in altre parole quali sono, in concreto, le sfide globali, che sono diventate sfide anche per i governi nazionali; infine, tratterò brevemente il tema del ruolo e della responsabilità dell’Europa, dato che è l’Europa la forma in cui l’Italia può partecipare ad un nuovo sistema di governance internazionale.

Il primo tema è il tema delle istituzioni. Le istituzioni della governance globale che abbiamo oggi sono nate sostanzialmente circa 60 anni fa. Le Nazioni Unite, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale (le Istituzioni di Bretton Woods), la Nato.
Fanno eccezione il G7, nato Rambouillet nel 1975 e divenuto poi G8; e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio nata nel 1995 sulle spoglie del GATT.
Il ruolo centrale avuto da queste istituzioni nel garantire stabilità, nel facilitare lo sviluppo del commercio e del sistema degli scambi e far avanzare i principi e norme per quanto riguarda sia i diritti individuali (si pensi non solo alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel ’48 ed ai successivi Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili, politici, economici e sociali, sottoscritti da un largo numero di Paesi membri) che le norme di convivenza e reciproco rispetto tra gli Stati è innegabile. La Carta delle Nazioni Unite è diventata la nostra “Costituzione mondiale”. E’ stata del resto la presenza di queste istituzioni dopo il secondo dopoguerra che ha consentito di evitare il ripetersi, per il mondo e soprattutto per l’Europa, di esperienze tragiche come le due guerre mondiali. Bisogna dare atto agli Stati Uniti, dopo il tentativo sfortunato di Wilson, di essere stati gli artefici delle istituzioni della governance globale che abbiamo ancora oggi. Ed è soprattutto attraverso tali istituzioni che gli USA hanno potuto esercitare, ma in maniera condivisa, la loro leadership internazionale. Il patto implicito tra gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali, negli oltre quarant’anni di guerra fredda, si è fondato sul riconoscimento da parte degli alleati della leadership americana, in cambio dell’accettazione da parte degli Stati Uniti di condividere con essi e “moderare” questa leadership nell’ambito delle istituzioni comuni. La questione di fondo tuttavia è un’altra, e riguarda l’adattamento di queste istituzioni ad una realtà profondamente mutata ed in rapida trasformazione, realtà in cui il potere mondiale si è fortemente diffuso ed il numero degli attori si è moltiplicato. Le istituzioni del ’45, per esempio, ponevano le premesse ma non contemplavano il processo di decolonizzazione. La natura delle sfide politiche ed economiche è cambiata. E’ dunque solo con una riforma di queste istituzioni e dimostrando che esse sono ancora capaci di svolgere una funzione efficace che diventa credibile proporre soluzioni concordate, evitando la logica di scelte unilaterali. Due sono le questioni peinciplai che vanno affrontate: la prima riguarda l’adattamento degli strumenti della governance globale alle nuove sfide; la secondo concerne la rappresentatività ed inclusività delle istituzioni multilaterali. Entrambi questi aspetti determinano la legittimità dell’architettura istituzionale internazionale agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Innanzitutto sono gli strumenti di cui queste istituzioni dispongono ad essere scarsamente efficaci e spesso insufficienti. Ad esempio, pensiamo nel settore della sicurezza alle forze al servizio delle Nazioni Unite per le sempre più numerose missioni militari di peacekeeping (molto spesso missioni per mettere fine a guerre civili all’interno di stati in dissoluzione). Pensiamo poi al problema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, dove manca un vero strumento multilaterale: solo l’Europa ha cercato con la Carta europea dell’Energia di dotarsi di uno strumento efficace, peraltro non ratificata dalla Russia, il principale produttore della materia prima. In proposito non esiste una regolazione internazionale che stabilisca doveri e diritti reciproci di consumatori e produttori. Alcuni strumenti e regimi multilaterali su cui si è fondata finora la stabilità del sistema, come il Trattato di non proliferazione nucleare, si trovano d’altra parte sempre più “sfidati” dalla nuova globalizzazione che ha aperto le maglie della proliferazione.
Il problema è che la strumentazione istituzionale ideata dopo il ’45 era imperniata sugli stati nazionali, sulla loro sovranità e su sfide di sicurezza diverse da quelle di oggi. Come sottolinea Paul Kennedy, a Bretton Woods, Yalta o San Francisco, non si parlava nemmeno di terrorismo internazionale, di riscaldamento globale, di Stati in disgregazione, temi che invece oggi si collocano al centro dell’agenda internazionale.
E’ evidente che abbiamo il problema di rafforzare sia gli strumenti normativi che le capacità di enforcement delle decisioni da parte delle istituzioni multilaterali per mettere queste ultime in condizione di reagire tempestivamente ed efficacemente alle sfide globali.

L’altro aspetto centrale riguarda la legittimità e la rappresentatività delle istituzioni della governance: non solo il Consiglio di Sicurezza ma anche istante finanziarie, come il G8, che riflettono rapporti di potenza che non corrispondono più alla situazione attuale.
Il Consiglio di Sicurezza è lo specchio dell’equilibrio creatosi al termine della Seconda Guerra Mondiale e si compone quindi in parte di “potenze” (i membri permanenti) di cui alcune, oggi, non sono più tali. Mi dispiace doverlo dire a qualche paese europeo amico, tuttavia questa è la realtà del mondo. Il G8, i cosiddetti “grandi della terra”, senza la Cina, l’India, il Brasile, non funziona più. Le istituzioni finanziarie internazionali sono espressione solo di una parte del mondo e sono viste in una altra grande parte come istituzioni estranee o addirittura ostili. Dobbiamo ammettere che queste istituzioni “euro-occidento-centriche” non rappresentano più in maniera adeguata il mondo di oggi; non rappresentano i mutati equilibri economici e demografici; mentre i paesi emergenti si sentono svantaggiati, sottorappresentati e privati della loro influenza.

Il Fondo monetario non funziona sulla base del principio “uno Stato un voto”, mentre invece, come dice Stiglitz, al suo interno “votano i dollari” cioè i paesi più ricchi. Il Direttore Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale è per tradizione un europeo, mentre il Presidente della Banca mondiale è un americano, “nominato”, in pratica, direttamente dal presidente degli Stati Uniti. Potremmo quindi dire che il Fondo Monetario è Internazionale ma con un marchio europeo e americano, mentre la Banca è mondiale, ma il suo Presidente è uno dei più stretti collaboratori del Presidente degli Stati Uniti. Il problema è estremamente complesso e il dibattito sui formati delle istituzioni è ancora molto aperto. Non c’è del resto solo il dibattito sull’allargamento del Consiglio di sicurezza, la discussione è più ampia.
Ad esempio, in occasione della crisi finanziaria degli anni ’90, si riunì a Berlino per la prima volta il G20, il gruppo dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali dei 20 paesi più influenti, che comprendeva finalmente la Cina, l’India, il Brasile, l’Indonesia, l’Arabia Saudita, il Sud Africa e la Turchia. Alcuni hanno successivamente proposto di trasformare questo formato in un foro politico, che non fosse né un organo decisionale, né tantomeno vincolato ad un Trattato come nel caso del Consiglio di Sicurezza, ma che tuttavia fosse inclusivo delle Nazioni più rappresentative del mondo globale con la funzione di favorire la costruzione di un consenso internazionale sulle principali problematiche globali e trans-nazionali. E’ questa soltanto una delle proposte avanzate. Tony Blair ha suggerito di dare vita ad un G13 con la Cina, l’India, il Brasile, il Messico, il Sud Africa. Il dibattito è tutt’altro che esaurito.
La sfida consiste nel conciliare le diverse esigenze. Da un lato, quella di allargare la base rappresentativa delle istituzioni globali attuali, per renderle più democratiche, più inclusive, più ricettive delle istanze della comunità globale nel suo insieme, e dall’altro quella di evitare che una maggiore inclusività infici l’efficacia delle istituzioni, soprattutto per quanto riguarda i processi decisionali. E’ un dibattito che ci è familiare, in fondo, e che ripropone su scala internazionale una discussione molto simile a quella che oggi vivono gli europei su come allargare i confini europei senza ridurre l’efficacia dei meccanismi di decisione.
Vorrei concludere su questo punto con un’osservazione: qualsiasi riforma delle istituzioni globali non può che essere consensuale: deve essere condivisa, cioè, dal massimo numero di Stati nazionali. C’è dunque bisogno del contributo di tutti, ma è evidente che le potenze più grandi, i paesi più sviluppati, quelli cioè che fino ad ora hanno avuto ed hanno tuttora un peso preponderante in queste istituzioni, hanno una responsabilità speciale nel ricercare il consenso e nel mostrare all’intera comunità internazionale la loro volontà di far funzionare il multilateralismo in maniera efficace e democratica al tempo stesso. Voglio sottolineare che l’Italia, sotto questo profilo, sta facendo la sua parte. Anzitutto sul tema della riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: l’Italia ha lavorato ad una proposta che va decisamente nel senso di un meccanismo più aperto, più inclusivo, più democratico, più rappresentativo.

(Parte 2/3)

tratto da: massimodalema.it

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