Per un piano industriale “popolare”

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di Flavio Felice*

“È venuto il momento che l’Italia si dia una seria politica industriale nel quadro europeo secondo le grandi coordinate dell’integrazione europea”. Con questo monito, il Capo dello Stato ha invitato il ceto politico italiano ad assumere un ruolo attivo e responsabile, degno di un paese civile e con un grande bisogno di rimettersi in marcia nella direzione di un soddisfacente sviluppo economico nel contesto dell’economia globale.

Ad ogni modo, non esiste una sola politica industriale e si suppone che il Capo dello Stato non volesse dire “datevi una qualsiasi politica industriale”; sicché, qualunque cosa il Presidente della Repubblica intenda per “politica industriale”, è opportuno che le forze politiche si confrontino sui modelli che la scienza economica presenta e sulle concrete esperienze che hanno storicamente contraddistinto la politica industriale del nostro Paese. In modo estremamente semplificato, possiamo rilevare una matrice “centralista-statalista” dello sviluppo ed una “liberale-personalistica”, la prima ha fortemente caratterizzato la vicenda economica italiana dall’unità fino agli anni Ottanta, la seconda non è mai stata sperimentata ed ancor oggi stenta a farsi strada. Eppure, la cifra “liberale-personalistica” è antica e vanta tanti padri nobili.

Volendo considerare unicamente la tradizione del cattolicesimo politico italiano, ci soffermeremo su alcuni spunti di uno dei suoi interpreti più autorevoli. Luigi Sturzo nell’appello del 1919: “A tutti gli uomini liberi e forti”, con il quale vedeva la luce il Partito Popolare, scriveva: “A uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo, sul terreno costituzionale, sostituire uno Stato veramente popolare”. Sturzo ribadisce tale concetto in più occasioni e nel 1926, in un saggio-recensione al libro di Guido Dorso, intitolato La rivoluzione meridionale, sottolinea che era convinzione del Partito Popolare che nessuna rigenerazione del Paese sarebbe mai stata possibile se non attraverso un’evoluzione verso lo “Stato decentrato ed economicamente libero e con un Mezzogiorno rimesso nell’equilibrio statale”. Contrariamente a quanti continuano a sostenere la tesi dei “due Sturzo”: uno popolare, precedente all’esilio, ed uno liberista, dopo il ritorno dall’esilio (1924-1946), il fondatore del Partito Popolare nel 1901 nel 1919, nel 1925 e negli anni Cinquanta ripeterà sempre come un mantra la sua visione federalista, personalista e liberale: “perché la poca saldezza di fede nei principi liberali, sui quali si è voluta poggiata l’unità della patria, è la causa di un timor panico e geloso che invade i nostri uomini, quando si parla di decentramento e di federalizzazione regionale, e che li ha costretti a sancire quell’uniformità […] che è la rovina delle nazioni moderne”; queste cose Sturzo le scriveva nel 1901, altro che “due Sturzo”! Di Sturzo ce n’è uno solo: federalista, liberale e popolare.

Ebbene, a proposito di politica industriale nazionale, con grande lungimiranza, Sturzo sosteneva sin dai primi del Novecento che nessuno sviluppo economico si sarebbe potuto realizzare se prima non si fosse affrontato il nodo della “questione meridionale”, e tre sarebbero le condizioni per una rinascita del Mezzogiorno. In primo luogo, una politica di autentiche liberalizzazioni, l’ingerenza statale nell’industria avrebbe creato una situazione insostenibile, definibile in questi termini: “monopolio della grande industria che vive da parassita sulla nazione; paralisi industriale nelle regioni meno favorite dalla centralizzazione economica”. In secondo luogo, dare maggiore consistenza economica alle regioni e procedere verso una progressiva articolazione federale dello stato, in modo che “le giunte regionali concorrano con il governo centrale a ristabilire il necessario equilibrio economico fiscale già alterato a danno del Mezzogiorno e delle isole fin dai primo decenni del Risorgimento e poi distrutto dal sistema fascista”. In terzo luogo, educare allo spirito d’iniziativa e d’imprenditorialità, affinché il Mezzogiorno sia restituito ai meridionali e siano loro gli attori del suo risorgimento. A questo punto, un’autentica politica industriale che conservi il carattere liberale e personalista, di ispirazione sturziana, si presenta come un sistema di “complessi industriali contigui, indipendenti, collegati per cicli produttivi e serviti da mezzi di trasporto adeguati. Occorre, pertanto, condizionare l’attività industriale in modo da poterla favorire e sviluppare fino al più alto rendimento”.

Oggi i cattolici possono contare, oltre che sul Magistero sociale della Chiesa, su un patrimonio di idee e di proposte politiche in gran parte ancora inedito. A differenza di alcune copie scarsamente conformi, il federalismo, il liberalismo ed il meridionalismo di Sturzo e della tradizione del popolarismo sono funzione dello sviluppo economico dell’intera nazione ed appaiono come parti integranti di una politica industriale e sociale che diffida delle soluzione centralistiche, dei piani ciclopici, dell’uniformità legislativa e fiscale, mentre si mostra in sintonia con una visione del progresso economico e sociale coerente con la moderna Dottrina sociale della Chiesa ed incentrato sui corpi intermedi, sui piccoli plotoni, sui mondi vitali, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di poliarchia.

*Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton – Adjunct Fellow American Enterprise Institute

(Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata da “Liberal” l’8 settembre 2010)

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