L’impresa irresponsabile

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di Marco Vitale 

Il professor Luciano Gallino ha recentemente pubblicato un libro importante dal titolo L’Impresa irresponsabile. In esso Gallino indaga l’apparente contraddizione tra il fatto che mai come nei nostri anni si è scritto e parlato tanto di etica d’impresa, di responsabilità sociale dell’impresa e mai abbiamo visto un susseguirsi impressionante di casi gravi di imprese dai comportamenti gravemente irresponsabili.
Gallino dà una definizione ineccepibile di impresa irresponsabile:
“Si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività”.

Da questa definizione possiamo anche dedurre il concetto di impresa responsabile. Responsabile è l’impresa che oltre ad osservare le leggi, come ogni buon cittadino, risponde con convinzione alla collettività del suo operato, dei suoi obiettivi, dei suoi risultati, dei suoi frutti. Se abbiamo il coraggio di guardarci intorno, e qualche volta dentro, con freddezza il quadro è scoraggiante. Al di là della orrenda retorica sulla responsabilità sociale d’impresa, divulgata dai sicofanti d’impresa, il sistema sembra premiare chi esercita il massimo grado di irresponsabilità e di appropriazione.

E qui può aiutarci a superare lo scoramento l’antico mito. Prometeo, colpito dal vedere l’uomo debole ed indifeso di fronte agli altri animali, dona all’uomo il sapere tecnologico, il fuoco e la capacità di utilizzarlo, dona all’uomo il know how e the will to manage, cioè l’essenza dello spirito d’impresa. Ma poi il fratello Epimeteo, colui che capisce sempre in ritardo e quindi non capisce mai, apre l’otre di Pandora che doveva rimanere chiuso e inonda l’umanità di terribili malanni. Ma, dice il mito, quando i malanni sono tutti volati fuori dall’otre, nel fondo dell’otre di Epimeteo si scopre che sopravvive la speranza. La speranza non muore mai. Questo grande concetto cristiano è già presente nel mito di Epimeteo.
Perciò anche noi coltiviamo la speranza e continuiamo a cercare di insegnare l’impresa responsabile. Confortati da tanti esempi di imprese responsabili che, se non riescono ad influenzare il costume dominante, riescono a tenere accesa la fiaccola del bene fare.

Per queste imprese e questi imprenditori l’antico capitalismo esiste ancora e le antiche virtù borghesi rimangono, come virtù personali, i presupposti generali del progresso economico. Per esse resta valida la definizione di Cotruglio: “mercatura è arte o vera disciplina intra persone ligiptime giustamente ordinata in cose mercantili, per  conservatione dell’humana generatione, con ispereanza niente di meno di guadagno”. Paragoniamola a quella di un maestro della moderna teoria d’impresa: “le imprese… sono organi della società. Esse non sono fine a sé stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale… Esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono” (P.E. Drucker, Manuale di Management, Etas Libri, Milano 1978). In entrambe, la legittimazione e l‘obiettivo centrale non è il profitto, ma l’assolvimento di un compito utile e legittimo nello sviluppo della società. E, dunque, per esse posso tranquillamente riprendere la definizione con la quale concludevo una mia lezione: “Un’etica d’impresa non può essere derivata che dalla natura e dalla funzione dell’impresa nella società umana. Le imprese, afferma Drucker, sono organo della società, non sono fine a sé stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale, esse sono strumenti per assolvere “fini che le trascendono”. Quali fini? Essenzialmente quello di contribuire  allo sviluppo attraverso una continua produzione di produttività. “Designiamo con il termine impresa le attività consistenti nella realizzazione di innovazioni, chiamiamo imprenditori coloro che le realizzano” ( J.A. Schumpeter, Business Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process. 1939-1964; trad. It. Boringhieri, Torino 1967).

Affermare che la regola morale fondamentale dell’impresa è di produrre profitti è, più che un’insensatezza sotto un profilo etico, un errore sotto un profilo manageriale. L’impresa che persegue il profitto, fine a se stesso, va infatti più o meno rapidamente in crisi ed ha un basso livello di sopravvivenza a lungo termine. L’impresa sana, ed al contempo eticamente corretta, è quella che realizza l’armonica compenetrazione di tre processi di accumulazione : accumulazione della conoscenza tecnologica, accumulazione della conoscenza organizzativa e, come conseguenza dei primi due, accumulazione del capitale. I tre processi di accumulazione sono alimentati dalla continua ricerca di innovazioni, tecniche, organizzative, culturali. Del pari poco sensato è impostare il problema dell’eticità del management in funzione del fatto che esso tenga più o meno conto dei vari interessi che nell’impresa confluiscono. Anche questa non è una questione etica, ma di semplice professionalità, e che ha già, da tempo, trovato una sua precisa sistemazione nella teoria manageriale, senza disturbare l’etica. Il manager che non sa o non vuole o non può tenere conto, in modo equilibrato, dei vari interessi che confluiscono nell’impresa non è una persona poco etica. E’ solamente un cattivo manager.

L’impresa sana è un’organizzazione di lavoro, una società di uomini e di beni, riuniti intorno ad un progetto legittimo, dove, in modo più o meno soddisfacente, il sistema stimola tutti i protagonisti a perseguire, collettivamente, i seguenti obiettivi:

produrre produttività ed innovazione al servizio di beni e servizi legittimi ed utili;
realizzare, attraverso queste attività, un surplus, nell’ambito di rigorosi obiettivi di economicità;
assicurare la sana sopravvivenza dell’impresa nel tempo;
valorizzare e far crescere i talenti delle persone anziché umiliarli;
far prevalere, in tutta l’organizzazione, la progressione per meriti anziché per altri fattori;
farsi carico, nei limiti della propria sfera di azione, responsabilità e possibilità, dei problemi generali dello sviluppo e della comunità.
Un’impresa così concepita è un’impresa più capace di resistere, nel tempo, alla buona ed alla cattiva sorte ed è, al contempo, eticamente corretta perché è fattore di sviluppo, assolve cioè alla sua funzione sociale, realizza i  “fini che la trascendono”. Che poi vi siano tante imprese lontane da questo modello non ne inficia la validità, così come l’ideale di parrocchia non viene intaccato dall’esistenza di tante parrocchie che non assolvono alla loro funzione.

In questo sforzo noi non lavoriamo solo per l’impresa ma per la collettività. Perché, ed è l’ultima lezione, è storicamente e ampiamente provato il

THĒORÈME BREF
 
L’ APTITUDE D’UN PEUPLE À SE DÉVELOPPER EST DIRECTEMENT PROPORTIONNELLE A’ SA CAPACITÉ DE CRÉER DES ENTREPRISES, AGRICOLES, ARTISANALES, INDUSTRIELLES, DE SERVICES, ET DE LES GÉRER SAINEMENT DANS LA DURÉE.  CETTE CAPACITÉ EST FONCTION DU SYSTHÈME ÉTHIQUE ET CULTUREL DU PEUPLE CONSIDÉRÉ. LE DÉVELOPPEMENT INTÉGRAL – TECHNIQUE-ÉCONOMIQUE, POLITIQUE-SOCIAL, CULTUREL- SPIRITUEL – N’EST BIEN ASSURÉ QUE PAR LE  DÉVELOPPEMENT SPÉCIFIQUE ET COORDONNÉ DES TROIS DIMENSIONS DU SYSTHÈME, QUE L’ON PEUT APPELER CAPITALISME DEMOCRATIQUE ET ETHIQUE.
Tratto dal libro “Dieu est-il contre l’economie?”  (di Paternot, Veraldi – Editions De Fallois; L’Age d’homme)
 

Ma per chiudere con leggerezza, lasciatemelo fare con questa vignetta che illustra meglio di tanti libri il ruolo fondamentale dell’innovazione.

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