La politica “italiana” in India: Rahul Gandhi

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di James Fontanella-Khan e Alessandro Fusacchia 

Finalmente è successo: alle ultime elezioni il ricambio generazionale è stato uno dei fattori decisivi per la vittoria elettorale; una nuova generazione di trentenni non solo ha contribuito a definire con idee e proposte il futuro programma di governo, grazie ad una prossimità speciale con il leader del partito, ma ha fatto in massa il proprio ingresso nel nuovo Parlamento. Unica nota dolente (almeno per noi): tutto questo non è successo in Italia, e nemmeno in una di quelle democrazie del nord Europa – come Svezia o Danimarca – con cui chi tiene a freno il cambiamento in Italia continua a ripetere che è improprio fare paragoni.

È successo (quasi) dall’altra parte del mondo, in India, in uno dei paesi più dinamici e innovativi, e grazie anche ad una radice italiana. Secondo gli analisti politici locali, la vittoria netta e inaspettata del Partito del Congresso indiano è stata in gran parte merito del trentenne Rahul Gandhi, figlio dell’italiana Sonia Gandhi, che avrebbe saputo portare linfa nuova in un partito «vecchio» e nel nuovo Parlamento, dove conterebbe oggi sulla maggior parte dei 79 deputati sotto i 40 anni.

Rahul Gandhi ha saputo attrarre attorno a sé un gruppo di giovani, tra cui molti appena rientrati in India dopo aver maturato esperienze professionali ed universitarie all’estero, e capaci di portare in campo quelle politiche di sviluppo e democratizzazione necessarie per rilanciare il partito.
Come ha fatto? Prima di tutto, Rahul ha messo in piedi un gruppo ristretto di collaboratori fidati, composto da Kanishka Singh, che aveva già lavorato alla Banca Mondiale e presso una banca d’investimenti; Sachin Rao, rientrato dalla Michigan Business School; Meenakshi Natarajan, una dei leader dei giovani del partito; Jitendra Singh, imprenditore; Pankaj Shankar, ex giornalista; e Milind Deora, parlamentare che aveva studiato alla Boston University. Insomma: un buon mix di giovani politici e giovani professionisti di altri settori, tutti accomunati dalla visione di un’India globale, aperta sul mondo, e pronti a traghettare il paese verso il futuro. Età media del gruppo: 36 anni.

In un secondo momento, Rahul e la sua prima cerchia hanno costituito dei gruppi di lavoro, stile think-tank, composti da giovani appena usciti dalle migliori università indiane e straniere, per progettare un piano di azione con politiche che rispecchiassero le ambizioni delle nuove generazioni. Vale a dire: pieni di voglia di futuro, e con la capacità di indicare che cosa l’India dovrebbe diventare nel corso dei prossimi dieci, o quindici anni.

Certo, si può sempre dire che, come altri della sua cerchia ristretta, lo stesso Rahul è un figlio di papà, anzi di mamma in questo caso. Ma non è questo il punto.

La questione è piuttosto se ha avuto lungimiranza o meno. Se si è ancorato alla sua nascita per continuare nella scia e con i metodi di chi lo aveva preceduto, imitando e prendendo spunto dal passato; o se ha saputo e voluto innovare, inventare, rischiare, provando a sviluppare una logica nuova, un modo diverso di fare politica e di costruire il futuro del proprio paese. La domanda che quindi conta non è tanto «da dove viene Rahul?», ma «dove vuole andare Rahul?». E soprattutto, «con chi?».

Il processo di apertura alle nuove generazioni portato avanti dal giovane Gandhi ha permesso di suscitare l’attenzione e attrarre le energie di molti di quei 750 milioni di indiani che hanno meno di 35 anni, e che pur avendo vissuto e partecipato attivamente al miracolo economico indiano non avevano ancora mai potuto giocare un ruolo di responsabilità nella politica del paese.

Certo, il cammino verso il compimento di questa «rivoluzione» generazionale rimane ancora lungo in India. Benché il numero di giovani sia aumentato in questo Parlamento, l’età media della camera indiana – stando alle stime della Times of India – rimane di 53 anni, la terza più vecchia nella storia democratica del paese. I «vecchi» mantengono ancora il controllo della maggior parte degli apparati governativi, a partire dalla leadership del primo ministro Manmohan Singh, settantaseienne.

Ma ciò che è chiaro e palpabile a chi sta in India e vive quotidianamente gli umori e i sentimenti del paese è la sensazione che sia l’inizio di una nuova stagione politica. In questo caso, chi ha il potere non pensa neccessariamente a passarlo ad un suo parente o amico, ma fa della sua posizione di privilegio – vedi Gandhi – lo strumento per aprire le porte a nuovi interlocutori e attori politici.

Da noi, invece, la situazione è nota, anche perché resta immutata col passare del tempo e pare che non succeda mai niente: siamo sempre stati indietro rispetto alla Svezia e alla Danimarca. Ma adesso pare che restiamo indietro anche rispetto all’India. Alla Camera, i deputati sotto i 40 anni sono di gran lunga meno dei deputati con più di 60 anni (77 contro 118), l’età in cui normalmente in Italia ci si ritira dalla vita attiva. Le leadership politiche, intese come classi dirigenti che controllano i partiti, sono sostanzialmente immutate dagli anni ’90; la disaffezione dei giovani e degli adolescenti per la politica e le istituzioni è forte (fonte: 9° Rapporto Nazionale sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Eurispes e Telefono Azzurro); i giovani professionisti cercano di sopravvivere ad un paese che non offre grandi prospettive o opportunità (professionali, per non parlare di quelle partitiche o politiche), continuando così ad alimentare una letteratura accademica sulla fuga dei cervelli che non si è ancora accorta che viviamo in realtà in un’Italia da cui hanno preso ormai a fuggire tutti, non solo i più bravi. Un’Italia dove chi può scappa, e chi non può arranca.

Che cosa allora si potrebbe fare in Italia, ispirandosi alle recenti elezioni indiane? Per cominciare, avanziamo tre proposte specifiche, semplici e concrete, che non sono una rivoluzione, ma potrebbero essere un primo passo in una nuova direzione:

1. Valorizzare l’esperienza e le conoscenze dei giovani professionisti sui territori. Le amministrazioni locali potrebbero costituire dei gruppi di giovani professionisti presenti (o comunque provenienti) dal territorio di riferimento, con la caratteristica comune di aver frequentato altri territori, nazionali o esteri, e di aver maturato conoscenze relative a buone prassi di policy territoriale (cfr. proposta di creare un assessore di Lisbona). Questi gruppi dovrebbero godere di una vicinanza con i vertici politici delle amministrazioni comunali e provinciali, ed essere consultati regolarmente, dal momento che nessuno vuole nuove scatole vuote, autoreferenziali o non utilizzate. Tali gruppi potrebbero contribuire anche ad animare i territori, portando a livello locale dibattiti su temi e modelli nuovi e su prassi innovative sperimentate altrove. Dovrebbero inoltre favorire l’osmosi con i giovani professionisti radicati sui territori, così da rafforzare la vocazione all’apertura delle nuove classi dirigenti locali. Le nuove amministrazioni provinciali che si verranno a formare a seguito delle prossime elezioni di giugno potrebbero dimostrarsi all’avanguardia, costituendo per prime tali gruppi.

2. Rafforzare la capacità dei nuovi deputati europei di lavorare nell’interesse del Paese. Gli italiani eletti al Parlamento di Strasburgo potrebbero creare – in maniera trasversale ai diversi partiti italiani – un meccanismo di consultazione regolare con giovani professionisti esperti di politiche di innovazione – intesa non solo come R&S o come innovazione tecnologica, ma anche come innovazione ambientale e sociale. Questa consultazione aiuterebbe a realizzare il migliore incontro tra l’interesse nazionale, inteso come «domanda di modernizzazione del paese», e l’opportunità europea, intesa come «offerta di know-how, finanziamenti, direzioni di policy e legislazione comunitaria», ottimizzando così i benefici che l’Italia può trarre dalla sua presenza nell’Unione europea. Questo gruppo consultivo dovrebbe essere poroso, capace di attingere alle migliori competenze italiane in circolazione, e potrebbe anche fungere come vettore di sensibilizzazione in Italia sui temi dell’innovazione.

3. In generale, rendere i partiti politici italiani permeabili ai giovani professionisti. Si potrebbe partire anche solo creando dei canali di comunicazione e confronto regolare tra giovani politici (o aspiranti tali) e giovani professionisti che non necessariamente aspirano ad entrare in politica, ma che hanno interesse a mettere le proprie competenze a servizio della politica intesa come ricerca del bene comune. Questo confronto contribuirebbe ad aumentare non solo la «massa critica di idee e progetti» a disposizione delle nuove leve politiche – i giovani di partito – ma anche la capacità di ibridazione dei partiti con una delle parti più dinamiche della società italiana.
Si tratta di tre proposte per cominciare a mandare dei segnali nuovi, a livello locale ed europeo così come dentro i partiti, per iniziare seriamente quel processo di ammodernamento del paese che non può che passare dalle politiche pubbliche, e quindi dall’ammodernamento dei meccanismi con cui gli eletti prendono decisioni nell’interesse collettivo.

L’Italia deve scoprire il significato profondo della cittadinanza attiva, e può farlo partendo da questa nuova «classe sociale» costituita dai giovani professionisti italiani, figlia della globalizzazione, della fine delle frontiere, della creatività e dell’innovazione come base dello sviluppo economico.

L’India è considerata un’economia emergente, ma c’è da chiedersi se non sia già più che emersa. Adesso però bisogna fare in modo che l’Italia, che da sempre è considerata invece un paese sviluppato, non diventi al contrario una società sommersa.

fonte: Progetto RENA

titolo originale: La politica e il ricambio generazionale (degli altri)

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