Manifesto in favore delle piccole imprese

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di Ferruccio De Bortoli
La cultura d’impresa nel nostro Paese è vaso di coccio fra eredità storico-culturali, spinte corporative e resistenze sindacali. Ha più nemici che amici, più sospetti che apprezzamenti. Altrove la si insegna a scuola, da noi è confinata in angoli residui del dibattito pubblico. Competizione e attitudine al rischio, nei Paesi con una democrazia di mercato più evoluta, sono componenti irrinunciabili del progresso, da noi conservano inspiegabili valenze negative. La tradizione giuridica italiana ha seminato l’idea che la tutela dell’interesse pubblico e dei diritti soggettivi si ottenga più facilmente limitando l’attività delle imprese anziché favorendola. Il valore immateriale dell’imprenditorialità è ancora percepito come modesto o secondario: si guardi soltanto alla tormentata storia della legislazione fallimentare. Il non fare finisce per avere uno spessore giuridico ed etico superiore al fare.
Qualche esempio. L’opporsi alla realizzazione di un’opera necessaria è di frequente valutato come espressione di un’idealità positiva (ambientale); il promuovere un’autostrada, un ponte o una galleria è, al contrario, il sintomo della prevalenza di interessi ed egoismi, generalmente percepiti come negativi. Una comunità scopre il valore sociale di un’impresa quando questa lascia il territorio o ristruttura, ma è raro che si ponga il problema di come attrarla, con le infrastrutture per esempio. Un posto di lavoro è prezioso specie nel momento in cui si rischia di perderlo, ma nessuno manifesta per i tanti posti di lavoro che non si creano per colpa delle rigidità normative. Se non è blasfemo il parallelo, si può dire che l’embrione del lavoro non ha alcuna dignità. Se muore non importa nulla a nessuno.
Nel vissuto quotidiano poi, è ancora radicata la convinzione che si possa avere lo stesso livello di benessere senza la vista di un capannone, di una centrale elettrica o di una via di comunicazione. Amiamo la modernità che non ha costi, nemmeno estetici, e riteniamo che l’energia elettrica esista in natura al pari dell’acqua. Se tutto questo accade, al netto di una voluta drammatizzazione, la spiegazione è una sola, desolante: l’impresa non è al centro delle preoccupazioni del Paese e non è vissuta come tale nel linguaggio della quotidianità.

La parola impresa ha sempre bisogno di un avversativo (sociale, aperta, solidale) come se non esprimesse in sé alcun valore assoluto. Sia la cultura marxista sia, in parte, quella cattolica hanno a lungo scambiato uffici e fabbriche come luoghi di contraddizioni sociali, se non di sfruttamento. Assai raramente i centri  di produzione, materiale e non, sono stati descritti come cellule sociali insostituibili, nelle quali non solo si crea il benessere, ma si impara ad essere cittadini.
In un mondo globale un Paese senza una cultura d’impresa condivisa è destinato a un ruolo subalterno, al di là della propria produttività. L’Italia dimostra di avere consapevolezza della centralità dell’impresa nei suoi distretti, salvo poi perderla nei (troppi) livelli della sua rappresentanza politica. È forte a Pordenone o a Varese, debole in qualsiasi commissione parlamentare o tavolo concertativo romano.
Forse, è venuto il tempo di scrivere un manifesto dell’impresa, e cominciare dalle piccole unità che sono il 90 per cento del totale. Un manifesto della piccola impresa per promuovere imprenditorialità e attitudine al rischio. La piccola è giovane: l’età media dei microimprenditori è intorno ai 35 anni. E uno su cinque è una donna. Una nuova azienda ogni tre, in città come Milano, ha come titolare un immigrato. Le Pmi non sono soltanto la spina dorsale dell’economia, ma anche i laboratori all’interno dei quali si sperimenta la società multietnica che verrà (Elogio civile della piccola impresa, Il Sole-24 Ore, 11 marzo 2005). Lì si formano identità e cittadinanza. Dal successo delle Pmi, e dal loro sentirsi parte integrante di una società che li rispetta e li valorizza, dipende in gran parte la qualità della nostra futura convivenza civile. Non solo il nostro benessere.

La piccola impresa è sempre di più luogo di integrazione e costruzione delle appartenenze: svolge un compito civile che in altri momenti storici non le era richiesto. E soltanto per questa ragione dovrebbe ricevere più attenzione e cure. La piccola non chiede sussidi, ma attenzione e rispetto. Se la società la metterà al centro delle proprie attenzioni, ogni posto di lavoro sarà anche la molecola di una identità nazionale più forte e l’invisibile mattone di una cultura di mercato e dell’impresa più diffusa e condivisa. Con la piccola, i lavoratori spesso diventano imprenditori. Nelle microaziende, specialmente nelle fasi di start up, si apprezza di più quanto sia irrilevante e anacronistico il conflitto fra capitale e lavoro. L’innovazione è esigenza quotidiana, vitale. Il rischio è congenito. E fuori c’è il mercato, il mondo con le sue insidie e le sue opportunità, non le relazioni, le protezioni o le amicizie come avviene a volte per gruppi più grandi e non solo a controllo pubblico.
Un Paese che avesse a cuore di più le proprie piccole imprese non le aggredirebbe con il fisco, la burocrazia, il difficile accesso al credito, i costi indiretti degli straordinari. Non richiederebbe loro un insieme di adempimenti di varia natura che sfiorano i dieci milioni di giornate l’anno. Non le costringerebbe a dedicare quattro giornate l’anno di un addetto per rispettare la sola normativa della privacy. Un Paese più moderno ed evoluto limiterebbe adempimenti e autorizzazioni, semplificherebbe i controlli almeno sulle aziende certificate. E soprattutto non lascerebbe nulla di intentato nel creare un ambiente favorevole alla libera iniziativa imprenditoriale. Un manifesto per le piccole imprese dovrebbe essere sottoscritto e fatto proprio dalla politica e dalla classe dirigente italiana per dimostrare, a se stessi e agli altri, di avere un’affinità per valori come competizione e mercato almeno pari a quella che storicamente hanno per equità e solidarietà. Il cammino non è facile né breve, certo è necessario.

fonte: Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2006

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