Abruzzo, terziarizzazione e nuova industrializzazione

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di Giuseppe Rapone

La terziarizzazione delle economie occidentali è in atto da diversi anni ed è testimoniata dai dati Eurostat sull’importanza del settore dei servizi, sia in termini di valore aggiunto che di occupazione. Alla base di tale processo vi sono diverse spiegazioni, in primis lo spostamento delle fasi produttive nei paesi a basso costo e minore tassazione con il conseguente aumento, nei paesi avanzati, della domanda di servizi a supporto delle filiere produttive internazionali. 

Questo processo vede le economie occidentali spostarsi verso la soft economy, cioè l’economia basata su attività tipicamente non produttive, come R&S, innovazione, design, progettazione, marketing, qualità. È evidente che tale fenomeno, se persistente, comporterà nel tempo lo svuotamento del manifatturiero europeo, e quindi la progressiva deindustrializzazione. Ed è altrettanto evidente che, quand’anche si conservino in patria le funzioni high-skilled a supporto della produzione, la delocalizzazione costituisce una perdita occupazionale per l’Occidente. Basti pensare all’attività (terziaria) di progettazione: uno, due, dieci persone progettano e 100, 200, 1.000 producono.

È lecito quindi porsi la domanda se l’economia occidentale, e quindi anche l’Abruzzo, debba assecondare il processo di terziarizzazione, e quindi favorire lo sviluppo del servizi ad alto valore aggiunto, o se debba attivare politiche industriali finalizzate a conservare la sua tradizionale vocazione manifatturiera, per la quale spiccano paesi come Germania e Italia. A parere di chi scrive, Eurolandia dovrebbe puntare a conservare un’anima industriale e, nello stesso tempo, valorizzare il comparto dei servizi innovativi di supporto alla manifattura. 

Per difendere e rilanciare l’industria, la Commissione europea qualche anno fa la lanciato la Piattaforma Tecnologica ManuFuture, proprio per attivare un dibattito sul futuro della manifattura europea. In Italia, è stata avviata l’ottima iniziativa Industria 2015, che vuole sperimentare una nuova politica industriale con incentivi automatici per la ricerca e l’innovazione. Inoltre, si sta cercando di mettere in campo azioni per l’introduzione dell’obbligo di indicazione del made in, con l’Italia in prima fila a rintuzzare l’opposizione di paesi trader come Francia e Regno Unito, e strumenti di difesa negli scambi commerciali, che ha visto le maggiori organizzazioni industriali europee contrarie alla riforma Mandelson, giudicata troppo concessiva verso i prodotti provenienti dai paesi emergenti. 

Tutto questo a livello macroeconomico. A livello micro, se per la grande impresa coltivare l’innovazione e restare vitale risulta più agevole grazie all’elevata disponibilità di risorse e una rete di relazioni consolidate, viene da chiedersi cosa possano fare le PMI per essere innovative e difendersi dai nuovi competitori. In altri termini, dove può andare, con chi può parlare una PMI per cercare di fare “qualcosa di nuovo”? Esistono dei luoghi, fisici o virtuali, ai quali la PMI può accedere per domandare ed offrire innovazione? E qual è, in concreto, il ruolo che debbono giocare istituzioni e università? Su questi interrogativi, sui quali ritorneremo in un prossimo intervento, si gioca la capacità di reagire alla situazione che stiamo vivendo. 

fonte: ilcentro.it                                                                       

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