Donato Iacovone, un abruzzese (teramano) alla Ernst & Young

iacovone.jpgAlwin Ernst nacque a Cleveland negli Stati Uniti, e Arthur Young a Glasgow, in Scozia. Non si incontrarono mai nella vita, ma i loro nomi erano destinati ad incrociarsi. Accadde 41 anni dopo la loro morte, avvenuta per entrambi nel 1948, quando i loro studi si fusero dando luogo alla Ernst & Young, società multinazionale specializzata nella certificazione di bilancio, divenuta oggi un’organizzazione che conta 130 mila persone, una delle cosiddette Big Four, le quattro società che in campo mondiale si spartiscono la gran parte del mercato. «Ernst e Young sarebbero orgogliosi del risultato», osserva Donato Iacovone, amministratore delegato della Ernst & Young Financial Business Advisors. Nato nel 1959 a Notaresco in provincia di Teramo, laureato in Economia e Commercio nel 1983, dopo un’esperienza a Milano di otto anni Iacovone nel 1991 aprì a Pescara un ufficio della Ernst & Young. Chiamato a Roma nel 1997 per occuparsi di Pubblica Amministrazione, nel 2004 divenne responsabile della consulenza in Italia e dal 2006 responsabile europeo dei Business Advisory Service. «Ernst & Young offre soluzioni in materia di revisione e organizzazione contabile, risk advisory, business advisory, transazioni, consulenza fiscale e consulenza legale, nei Paesi ove quest’ultima è consentita: aiutiamo le aziende a migliorare la propria attività in tutto il mondo, a gestire i rischi, a cogliere le opportunità e realizzare il proprio potenziale, coltivando tutti gli stessi ideali e la stessa passione per il lavoro».

Come valuta il sistema Italia in un mondo che cambia per l’aumento della competitività dovuto anche alla presenza dei Paesi di nuova industrializzazione?
Da tempo poniamo l’accento sul problema dell’attrazione di investimenti, che il nostro Paese fatica ad affrontare, e soprattutto su quello dell’innovazione, fondamentale per l’incremento di competitività delle imprese, come dimostra l’ultimo Rapporto dell’Institute for Management Development di Losanna. La classifica internazionale dei livelli di competitività di 55 Paesi pone l’Italia al 46esimo posto dietro Grecia, Brasile, Polonia e Romania. Un risultato peggiore di quello del 2007, in cui occupavamo la 42esima posizione. A questo quadro contribuisce soprattutto l’incapacità di innovare del sistema imprenditoriale italiano e della Pubblica Amministrazione; ma anche la bassa produttività del sistema, l’eccessiva specializzazione delle attività produttive in settori tradizionali, la scarsa offerta di beni e servizi ad elevato contenuto tecnologico. Nel 2005 la spesa in ricerca e sviluppo, in rapporto al prodotto interno, si attestava sull’1,1 per cento, rispetto a una media dell’1,8 per cento nell’Unione Europea.

Cosa ci distingue da questa?
Nel 2005, ultimi dati disponibili, abbiamo registrato all’European Patent Office 80 brevetti ogni milione di abitanti, rispetto a una media di 112 dell’Unione Europea a 15 Paesi. A ciò si aggiungono i problemi strutturali che da anni condizionano il sistema produttivo. La bassa presenza nei settori tecnologicamente più avanzati ci impedisce di partecipare alla riorganizzazione internazionale delle industrie di elettronica di consumo, chimica avanzata, telecomunicazioni e tecnologie informatiche. L’elevata concentrazione in settori tradizionali a minor valore aggiunto come il tessile-abbigliamento, la casa e la moda, ci espone alla concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione che si impongono grazie ai costi, in particolare quelli del lavoro, assai più contenuti.

Non ha giovato il trasferimento di aziende italiane in tali Paesi?
Il nostro sistema produttivo ha limitate capacità di delocalizzare le attività e di adattarsi alla nuova divisione internazionale del lavoro. Le imprese non innovano molto e lo fanno spesso solo per aumentare la produttività attraverso una riduzione dei costi. Ma ciò che appare più rilevante è che le tecnologie apportano innovazione in quanto sono incorporate nei macchinari acquistati, ma non entrano in un ridisegno generale dell’attività produttiva, che occorrerebbe per ottenere un’autentica crescita interna dell’azienda. Inoltre, nelle imprese di medie dimensioni spesso si perseguono politiche di crescita basate sulla diversificazione dell’attività e sulle acquisizioni esterne, con effetti non sempre efficaci nel medio e lungo periodo. La focalizzazione sul core-business e sulla crescita interna attraverso l’innovazione rappresenta tuttavia la vera sfida per il nostro sistema produttivo.

Quali aziende hanno saputo adattarsi alla nuova situazione?
Quelle dei distretti industriali, nei quali il trasferimento delle conoscenze è stato sistematicamente incorporato nel prodotto finale. Molte imprese hanno investito nell’esternalizzazione delle attività di ricerca e sviluppo e nella riorganizzazione della logistica, della distribuzione e della commercializzazione, compensando, seppure in piccola parte, il gap innovativo rispetto agli altri mercati. Siamo di fronte a un sistema che, comparato ad altri, risulta perdente ma capace di grandi eccezioni. Nella moda e nel lusso abbiamo esempi straordinari come Armani, Dolce e Gabbana, Luxottica, Diesel, un’azienda quest’ultima che ha attuato un’altissima innovazione nei prodotti e nei canali di commercializzazione. Innovare non è solo applicare nuove tecnologie al prodotto, ma anche adottare nuovi sistemi di vendita, di marketing e di gestione delle risorse umane.

Può fare qualche esempio?
I temi della leadership e della motivazione hanno assunto grande rilevanza nelle aziende, così come quello della «diversità», che sta portando quelle più illuminate a cogliere tutte le opportunità offerte da un contesto di lavoro eterogeneo, usando le differenze di sesso, razza, religione per il successo. La «diversità» alimenta creatività e tolleranza, crea un ambiente di lavoro aperto e piacevole, induce le persone a dare il meglio, aiuta la crescita personale e professionale. Una maggiore disponibilità all’ascolto e la capacità di confrontarsi migliorano le relazioni con i clienti e aprono nuove prospettive in un mercato sempre più variegato.

Occorre innovare in tutti i settori dell’azienda e in tutti i modi?
Si possono introdurre elementi di innovazione in tutti i processi aziendali, non solo nel prodotto. Un esempio di eccellenza è rappresentato dalla Finmeccanica che sta completando la filiera con acquisizioni di rami di azienda negli Stati Uniti, in un settore altamente tecnologico nel quale saranno coinvolte le strutture italiane. La Fiat sta dimostrando quanto sia importante il management. Avremmo dovuto seguire lo stesso modello adottato dal tessile e dal comparto moda anche in altri settori come le tecnologie informatiche e le telecomunicazioni, dove pure avevamo punte di eccellenza. Buona parte del know-how di Vodafone, uno dei maggiori operatori del settore, deriva dall’acquisizione di Omnitel, all’epoca al cento per cento italiana ed oggi confluita in Vodafone Italia, il ramo della multinazionale nel quale ancora si fanno ricerca e innovazione. L’Italia ha invece abbandonato il settore: Tiscali è in vendita, Fastweb è andata agli svizzeri e Telecom Italia è in buona parte spagnola. Ma dove il Paese trova le energie, la volontà e anche il coraggio è in grado di partecipare attivamente alla globalizzazione.

Qual è la ricetta per cambiare il tessuto imprenditoriale?
Occorre agire contemporaneamente nei settori pubblico e privato. Le politiche pubbliche vanno definite e sviluppate per promuovere processi di innovazione nel Paese e stimolare la ricerca legandola alle effettive necessità del mercato. Ed è fondamentale cambiare la cultura d’impresa del nostro mondo produttivo. È necessario promuovere la competizione innanzitutto cambiando le regole, liberalizzando, riducendo l’incidenza del costo del lavoro e il carico fiscale, potenziando le infrastrutture ed innalzando il livello di formazione tecnico-scientifica. Sul costo del lavoro mi sembra vi siano buone premesse. Sul carico fiscale c’è grande attenzione. Parte della protesta del Nord deriva dall’impossibilità di innovare nelle imprese in assenza di infrastrutture e più in generale di un sistema-paese a supporto.

Come giudica i programmi governativi?
Sono interessanti le iniziative del Programma Industria 2015 che punta alla concentrazione delle risorse in pochi progetti in grado di determinare effetti sull’intero sistema produttivo: creazione di nuove reti di impresa, ricorso alla finanza innovativa per favorire lo sviluppo di produzioni nei settori ad alto contenuto tecnologico, la riqualificazione e il rafforzamento della piccola e media impresa. Il Fondo per la competitività e lo sviluppo, dotato di un budget iniziale di 350 milioni di euro, dovrà finanziare progetti in tema di efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, made in Italy, beni e attività culturali. A questi strumenti si aggiungono le iniziative finanziate dai programmi europei e dai Fondi strutturali attraverso i diversi Piani operativi nazionali e regionali.

Quindi esistono le politiche e gli strumenti per il cambiamento?
In alcuni casi si tratta di iniziative interessanti, ma è fondamentale che la Pubblica Amministrazione le gestisca nella maniera più efficiente, evitando sovrapposizioni. Non bisogna tuttavia dimenticare che l’innovazione nasce soprattutto all’interno dell’azienda. Troppo spesso, ad esempio, si tende a concentrare l’attenzione sul prodotto, dimenticando che questo va distribuito e venduto. La chiave del successo sta anche nella capacità di prevedere le tendenze della clientela. Le imprese devono aprirsi ai nuovi mercati, diversificare i prodotti, creare reti, uscire dai confini territoriali e culturali che spesso costituiscono vere e proprie barriere per lo sviluppo.

È possibile ciò, vista la grande presenza nel nostro Paese di piccole e medie imprese?
Non c’è dubbio. Tutto il mondo si interroga se arroccarsi su ciò che si è creato o aprirsi al mondo: la Gran Bretagna su finanza, assicurazioni e servizi, la Germania su prodotti ad altissima tecnologia e qualità. Noi abbiamo grandi possibilità nell’agroalimentare ma, se si resta fuori dai settori ad alto valore tecnologico, si è schiacciati dalla competizione.

Quali contributi può fornire l’Ernst & Young?
Mettiamo a disposizione la nostra profonda esperienza. Alla Pubblica Amministrazione possiamo fornire un contributo decisivo per attuare grandi progetti di cambiamento e semplificazione. Siamo impegnati da due anni, ad esempio, in un grande progetto in Gran Bretagna che si concluderà l’anno prossimo, sulla nuova carta di identità e sul passaporto elettronico. Talvolta si tratta anche di cambiare il metodo di lavoro delle persone, perché i processi produttivi sono molto cambiati. Abbiamo assistito molte Regioni nel favorire l’accesso delle piccole e medie imprese alla ricerca e all’innovazione manageriale e organizzativa, così come ad attrarre dall’estero investimenti ad alto contenuto tecnologico. Ma è soprattutto con le aziende leader che operano in contesti globali che Ernst & Young continua a mantenere un rapporto privilegiato. Sono soprattutto queste aziende che oggi si interrogano su come attuare strategie di prodotto, mercato, risorse e tecnologie realmente «innovation driven». Recentemente, ad esempio, per una multinazionale del settore agroalimentare abbiamo definito una road-map di innovazione incentrata sull’analisi delle esigenze della clientela.

Come affrontare il problema del personale che non è in grado di assimilare le novità?
La difficoltà di adattarsi al cambiamento ha una matrice prima di tutto culturale. Ma la soluzione non sta nel licenziamento. Prima si affronta in maniera diretta e trasparente il problema, maggiori sono le possibilità di trovare una soluzione soddisfacente.

Qual è la vostra posizione nei confronti del sistema formativo?
Oggi non esiste più separazione tra la formazione d’aula e quella professionale in azienda. È diventato un unico processo, per questo cerchiamo di predisporre un solo programma in cui includere formazione nei luoghi di lavoro, momenti di raccordo in aula, ma anche approfondimenti sulle capacità di leadership necessarie in un secondo momento. Quest’anno abbiamo istituito un master interno per i neo-laureati che entrano a far parte della nostra organizzazione. Rappresenta una delle iniziative che le imprese possono mettere in atto per puntare sulla qualità delle risorse umane e rispondere alla sfida della creazione di valore.
 

fonte: specchioeconomico.com – Donato Iacovone: Ernst & Young,  A fianco delle imprese per rinnovarle 
autore: Serena Purarelli

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