Il lavoro è da rifare

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di Luigino Bruni 

Per rilanciare l’Italia e l’Europa occorre creare nuovi posti di lavoro. E fin qui è facile essere tutti d’accordo. Su come e dove crearli le opinioni però divergono, e di mol­to. Ciò che è certo è che nei prossimi anni i due principali settori dell’economia, quello pubblico e quello privato-capitalistico (o, con una espressione fondamentalmente fuorviante, l’economia “for profit”), potran­no assorbire poco più della metà della quo­ta di lavoro che occupavano prima della cri­si. E la ragione è semplice, sebbene un po’ ar­ticolata.

In primo luogo, c’è l’emergere di nuovi co­lossi economici – come Brasile e India – che nella divisione internazionale del lavoro svol­gono oggi, a costi più bassi, buona parte del­le attività manifatturiere su cui l’Italia ha co­struito, a partire soprattutto dal dopoguer­ra, il suo miracolo industriale. In questi an­ni abbiamo già visto un forte cambiamento dell’industria manifatturiera italiana, desti­nato ad accentuarsi. In secondo luogo, si la­vorerà più a lungo, e la quota di occupazio­ne femminile crescerà, essendo ancora mol­to, troppo, bassa in Italia. Infine, la ragione forse più decisiva è l’inesorabile (e salutare) decrescita dell’occupazione nella Pubblica amministrazione cui assisteremo nei pros­simi anni: tra dieci anni i dipendenti pubblici saranno circa 1/3 meno di quelli del pre-cri­si, e tra venti anni meno della metà.

Il debito pubblico è cresciuto anche come risposta sbagliata a un settore privato in cri­si, che ha determinato una crescita dopata del settore pubblico, evidentemente inso­stenibile (in Grecia, ma anche in Italia, Fran­cia e altri Paesi latini). E qui c’è anche una re­sponsabilità della teoria economica di ori­gine keynesiana, che ha centrato sulla do­manda da parte del settore pubblico il ful­cro della leva economica di un Paese, muo­vendosi così in direzione opposta a quella indicata da Friedrich Von Hayek. Questo e­conomista austriaco aveva invece capito che se i posti di lavoro non nascono “dal basso”, dai cittadini-imprenditori che hanno le informazioni e le conoscenze dei bisogni propri e di quelli degli altri, questi posti di la­voro funzionano, a volte e in parte, per ri­lanciare l’economia nel breve periodo, ma sono posti di lavoro normalmente insoste­nibili nel tempo. Quando il lavoro nasce dal Settore pubblico, questa occupazione è, in larga misura, ‘sfasata’ di un ciclo tempora­le rispetto ai cambiamenti dei gusti e dei bi­sogni della gente; e in un mondo veloce e globalizzato come il nostro, questa sfasatu­ra significa produrre beni e servizi inadeguati o inutili.

Di Hayek, purtroppo, è stato spesso fatto un uso ideologico a difesa del libero mercato come l’unico meccanismo che assicura sem­pre e in ogni caso il massimo di efficienza e di libertà, una strumentalizzazione che ha allontanato dal suo pensiero molta gente, impedendo così che arrivasse al grande pub­blico la perla nascosta all’interno del suo si­stema teorico, vale a dire il ruolo cruciale svolto nelle società moderne dalla divisione della conoscenza. Questa divisione della co­noscenza (diversa dalla “smithiana” e classi­ca divisione del lavoro ), fa sì che solo chi è vi­cino ai problemi abbia gli elementi rilevan­ti per fare le scelte giuste e sostenibili, anche e soprattutto in faccende economiche e di impresa. Che cosa serve ai coltivatori delle viti delle Langhe lo conosce la comunità dei mestieri che ruota attorno a quella produ­zione, fatta di conoscenza tacita e specifica accumulata nelle scelte quotidiane compiute attraverso i secoli. È questa conoscenza quel­la veramente utile e indispensabile per fare le scelte produttive giuste. Se, quindi, i nuo­vi lavori non nascono dal basso, dai cittadi­ni e dalla società civile, dell’emergere cioè di questo intreccio di cultura e conoscenza con­testualizzata, i posti di lavoro saranno qua­si sempre insostenibili. Se vogliamo, allora, rilanciare davvero l’oc­cupazione in Italia e in Europa, occorre o­perare una rivoluzione pacifica, ma di enor­me portata culturale. Occorre liberare le for­ze civili che sono state occupate in questi ul­timi decenni dalla burocrazia (e da partiti senza partecipazione di base), e far sì che i cittadini si ri-occupino della cosa pubblica.

Nella storia dopo gravi crisi se ne usciti con un nuovo protagonismo della società civile, che ha dato vita a cooperative, banche, imprese, mutue, formazioni partiti, sindacati: oggi ci attende qualcosa del genere, e subito.

Non per metterci nelle mani del mercato “for profit” o degli speculatori, ma per riattivare l’economia civile, la tradizione che ha fatto grande l’Italia, dal Quattrocento ai distretti del made in Italy. È da qui che rinasceranno anche oggi quei nuovi posti di lavoro, e quindi proprio dai punti di forza del modello italiano-comunitario, che già oggi continua a creare nuovi posti di lavoro nel cosiddetto Terzo Settore. Che merita tutta la giusta considerazione da parte di chi sta traghettando l’Italia fuori dalla tempesta, e che va fatto crescere. C’è infatti bisogno di un nuovo e più ampio Terzo Settore, capace di entrare stabilmente in nuovi ambiti – quali cibo, arte, artigianato, il mondo della creatività, ma anche dell’energia e dei beni comuni – perché esistono, e proprio in questi tempi di crisi, enormi potenzialità ancora non sfruttate. Ogni crisi è «distruzione creatrice», ma è necessario saperla leggere, interpretare, muoversi insieme, e senza aspettare ancora a lungo.

fonte: avvenire.it

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