La leadership di Obama alla prova dei fatti

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di Joaquín Navarro-Valls 

Entrando nella fase centrale del suo primo anno di presidenza, Barack Obama si trova a dover far fronte alle sue vere responsabilità politiche. La campagna elettorale durissima che si è lasciato alle spalle è ormai questione del passato. Non così le tante promesse e aspirazioni che la sua figura ha generato e ha alimentato in America e, forse, anche nel resto del mondo. Le prossime elezioni sono ancora lontane dall’orizzonte. Si può ben augurare che i suoi intenti riformisti siano messi in pratica nei prossimi mesi, altrimenti si perderanno nel dimenticatoio, non venendo più alla luce per niente. Le parole di Obama, anche nel recente discorso all’Onu, sono apparse molto efficaci e pienamente espressive della sua famosa brillantezza. I commenti della stampa internazionale sono stati, tuttavia, assai tiepidi e controversi. Tutti senza entusiasmo. E il riferimento non va all’ovvia impossibilità di ricevere un’accoglienza unanime di consensi da ogni parte quando si parla d’argomenti dalle molte sfaccettature. Si tratta piuttosto di una difficoltà di giudizio che rispecchia la tortuosa e articolata situazione che vive il mondo, stretto oggi tra la crisi economica da un lato e le nuove pericolose incognite di pace dall’altro. In ciò è possibile valutare adeguatamente il giudizio di “debolezza” dell’ultimo sondaggio relativo ad Obama: un consistente 56% di consenso negli Stati Uniti, che rappresenta però cinque punti in meno rispetto all’ accordo ottenuto la primavera scorsa. Una stanchezza che forse maliziosamente riguarda non tanto la persona quanto piuttosto la scarsa efficacia di applicare alla realtà dei fatti le prospettive presentate in campagna elettorale e nei primi mesi del suo quadriennio. Al presidente democratico sta accadendo più o meno quello che avvenne 2001 al repubblicano George W. Bush durante il suo primo mandato. Le prospettive offerte durante le elezioni non trovavano più riscontro con quanto era necessario fare dopo l’11 settembre. Le decisioni allora divennero praticamente soltanto quelle del momento, quelle della persona. Le responsabilità indipendenti dai piani di partito prestabiliti. La risolutezza di Bush non gli creò buona stampa, ma fece andare avanti in qualche maniera il suo Paese, pur creando dei problemi che ancora persistono. Oggi la situazione di Obama è in parte simile e in parte diversa. La condizione di partenza sembra però essere perfino identica. Lo scenario dei problemi in agenda è altamente complesso: dalla difficile situazione di guerra, al dilemma se inviare o meno più soldati in Afghanistan contro la volontà del suo popolo; dalla pesante attuazione delle riforme sociali relative alla sanità e dalla promessa di chiudere la prigione militare di Guantanamo, all’annunciato impegno di portare avanti l’indagine federale sulle presunte torture della Cia; dall’attuazione di un qualche piano di pace per il Medio Oriente, fino alla crisi mastodontica che ha investito il continente americano e il resto del pianeta. Con l’eccezione di questo ultimo tema economico e finanziario, una risposta vera a questi problemi Obama non l’ha data ancora. Quando la offrirà e se lo farà, sarà una risposta inevitabilmente sua, altra da quelle del passato, perché diverso è l’uomo, diverse sono le attese, e soprattutto diversi sono gli interessi economici e politici che hanno scommesso e sperano in lui. Il modo di risolvere le cose sarà nuovamente affidato soltanto a lui, alla sua abilità o alla sua incapacità, a seconda dei casi. Quello che si sta verificando negli Stati Uniti non è, d’ altronde, un fenomeno esclusivamente americano. Basti guardare la situazione tedesca per comprenderlo. Le promesse di occupazione dello Spd sono mancate soprattutto di realismo. E sempre la penuria d’idee appare nella loro moltiplicazione utopistica, nell’affastellata ricerca di sogni e progetti inesistenti, nell’investimento unico che è fatto nel regalare alla gente speranze lontane da ogni verificabile attuabilità. Se questa tendenza nefasta è stata da sempre il tallone d’Achille dei miraggi europei, adesso Obama non si trova messo molto meglio. Il suo europeismo onirico appare colorato di retorica americana, ma mancante di quel pragmatismo positivo che servirebbe a tutti per far fronte ai problemi internazionali che soffocano l’apertura di speranza di tutta l’umanità. Per capire quanto conti veramente tutto questo, è sufficiente fermarsi a considerare il tipo di reazione che Obama ha assunto davanti al copioso impegno militare in Afghanistan. In una delle moltissime – forse troppe – interviste televisive concesse la scorsa settimana, egli ha dichiarato «di non credere all’occupazione a tempo indeterminato d’altri Paesi e di voler attendere a mandare rinforzi». Risposta troppo ovvia, e, nella formulazione finale, per nulla risolutiva. Sarà capace, infatti, veramente di non cedere alle pressioni dell’apparato e di restare coerente fino in fondo con quanto dice di voler fare? A volte è indispensabile non cadere nella tentazione di pensare che tutto possa andare avanti con l’illusione che la volontà sia sufficiente a realizzare le cose. Nel costante conflitto tra la difficoltà dell’agenda e l’incertezza personale, per Obama è divenuto adesso impellente far fruttare l’enorme chance che la sua elezione gli ha dato, perlomeno per realizzare uno solo dei tanti progetti agognati con passione. Quando non è possibile essere coerenti in tutto, meglio esserlo almeno in qualcosa. In fondo, l’elemento che realmente definisce chi riesce a realizzare un’idea è il possesso di una vera leadership personale. E se Obama è un leader, allora il suo carisma personale uscirà allo scoperto e dimostrerà chiaramente in tante piccole realizzazioni magari poco appariscenti ma risolute la sua forza politica. L’importante è che egli non perseveri nell’ostinato tentativo di attualizzare un sogno che, come sempre accade, svanisce inevitabilmente, quando la cruda realtà si palesa di nuovo nella sua concretezza alle prime ore del mattino.

fonte: la Repubblica 7 ottobre 2009

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