Bisogna ripensare tutti i Sud del mondo

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di Flavio Felice*

Quanti “Sud” esistono nel mondo? Elementare…, tanti quanti sono i “Nord”. Il Nord è sinonimo di sviluppo, di ricchezza, di flessibilità e di dinamismo. Il “Sud” è percepito come sinonimo di pantano civile, di sottosviluppo, di rigidità e di diffusa malavita.
Per questa ed altre ragioni il “Sud” non è soltanto un’area geografica, anche se è un dato che le quote di “Sud” sono molto più diffuse in alcune aree del mondo piuttosto che in altre.
Se vale quanto detto per il “Sud”, deve valere la stessa logica per il “Nord”. Anch’esso non è soltanto un’area geografica, sebbene le quote di sviluppo e di civismo siano molto più diffuse in alcune aree rispetto ad altre. “Nord” e “Sud” assumono la fisionomia di un archetipo complesso della nostra società.
Accanto ovvero all’interno di realtà politiche, economiche e culturali degradate possiamo trovare significativi esempi di vita civile ad altissimo “capitale sociale”; così come in seno a realtà sociali considerate un esempio di efficienza civile, si possono riscontrare preoccupanti derive di profonda disumanità.
Le città del cosiddetto primo mondo: i “Nord”, sono sempre più popolate da una underclass figlia del “supersviluppo”; l’espressione underclass rappresenta la condizione in primo luogo esistenziale di tutti coloro che effettivamente sono “tagliati fuori” dal contesto civile.

ESISTENZA EQUILIBRATA

La loro non è un’emarginazione che nasce necessariamente dalla mancanza di beni materiali, bensì dipende da un vissuto nel quale gli elementi essenziali per un’esistenza equilibrata: il lavoro, la famiglia e la comunità, sono percepiti e vissuti in maniera distorta e perversa.
Ciò che caratterizza la loro vita non è tanto il fatto di non poter contare su un reddito sufficiente per vivere una vita dignitosa, quanto una sorta di disorganizzazione sociale, una povertà nelle relazioni sociali ed affettive, nonché l’incapacità di comportarsi in modo responsabile rispetto all’adozione di determinati valori.
Si tratta di una specie di egoismo sociale di tipo hobbesiano nel quale sono bandite fiducia e cooperazione, mentre l’egoismo e l’isolamento rappresentano la norma.
Sono questi solo alcuni dei temi affrontati da Benedetto XVI nella sua recente enciclica Caritas in veritate, riprendendo il concetto di “supersviluppo” formulato da Giovanni Poalo II in Sollicitudo rei socialis (1987).
Avendo posto in questi termini il problema dello sviluppo, assumono rilevanza i concetti di “capitale umano” e del suo possibile corollario: il “capitale sociale”, nel quadro di un ordine interno ed internazionale che li promuova mediante il riconoscimento dei diritti inviolabili alla partecipazione politica, economica e culturale.
A tal proposito, può risultare di particolare interesse la riflessione dell’economista peruviano Hernando De Soto: Povertà e terrorismo.
L’altro sentiero
(Rubbettino, 2007); Il mistero del capitale (Garzanti, 2000). De Soto si è prefisso lo scopo di esplorare la sorgente del capitale e di individuare le vie, o correggere le insufficienze, che caratterizzano i progetti atti a combattere la povertà.
La premessa concettuale evidenziata dal De Soto è che i beni vivono vite parallele: da un lato svolgono una funzione fisica (capitale morto): le case servono come dimora, dall’altro esprimono un valore seminale (capitale vivo): si può usare la propria casa come collaterale per prendere in prestito del denaro per finanziare un’impresa.
In tal modo, il capitale presenta una doppia dimensione: una fisica ed una generativa di plusvalore.
Dunque, la formalizzazione del diritto di proprietà, espressione caratterizzante la vicenda storica occidentale, ci consente di evidenziare non solo l’attività di un bene, ma anche la possibilità di essere combinato e suddiviso, sviluppando in tal modo il suo potenziale creativo. In definitiva, ci fa notare De Soto, il sistema formale dei diritti di proprietà è assimilabile ad una centrale idroelettrica: è lì dunque il luogo di nascita del capitale e la ragione per cui il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo.
Risulta molto interessante il modo in cui il nostro autore ha descritto il processo di formalizzazione dei diritti di proprietà posto in essere dalla neonata nazione degli Stati Uniti d’America, che soltanto 150 anni fa era un paese del Terzo Mondo, e che evidenzia il nesso esistente tra la legalizzazione della proprietà e la creazione di capitale vivo.
In seguito ad accurate ricerche sul campo, il nostro autore ha constatato che nelle Filippine, ma la situazione è ancora più grave in altri paesi del Terzo Mondo ed ex comunisti, il 57 per cento degli abitanti delle città ed il 67 per cento della popolazione rurale vivono in case alle quali non è collegato alcun diritto legale di proprietà e, di conseguenza, costituiscono capitale morto.
La tesi di de Soto è che i leader dei paesi del Terzo Mondo e dei paesi ex comunisti non hanno alcun bisogno di diventare clientes delle cancellerie occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionali.
“sufficiente che essi comprendano che “nel mezzo dei loro quartieri e baraccopoli ci sono – se non ettari di diamanti – trilioni di dollari, già pronti per essere usati purché riusciranno a svelare il mistero di come le attività si trasformano in capitale vivo”.

SVILUPPO ECONOMICO

Così come l’acqua racchiusa in un lago ha bisogno della centrale idroelettrica per produrre energia fungibile, anche le attività umane hanno bisogno di un “sistema formale di diritti di proprietà” per produrre plusvalore in maniera significativa.
De Soto ha individuato sei effetti della proprietà che svelano il mistero del capitale: fissare il potenziale economico delle attività; integrare informazioni disperse in un unico sistema; rendere le persone responsabili; rendere le attività fungibili; collegare gli individui; tutelare le transazioni.
La proposta del nostro autore, allora, consiste nella formulazione di una concreta agenda di lavoro per avviare un “processo di capitalizzazione” che si traduca in una moderna legislazione sulla proprietà, facendo emergere dalla galassia dell’extralegale le attività di coloro che allo stato attuale, per il diritto, non esistono, in quanto è la legge che fissa il potenziale economico di un bene come dimensione autonoma, un “valore separato” dalle attività materiali e, di conseguenza, consente agli uomini di coglierne il potenziale produttivo: “E’ la legge che connette i beni patrimoniali in circuiti finanziari e d’investimento. Ed è la rappresentazione dei beni patrimoniali fissata in documenti legali della proprietà che dà ad essi il potere di creare plusvalore”.
Lo studio di De Soto, oltre a rappresentare un indispensabile strumento di lavoro in termini di public policy, è una preziosa provocazione che scuote il dibattito sull’effettivo potenziale del microcredito, sulla globalizzazione e sui modelli di sviluppo. Egli propone un’alternativa alle classiche “teorie della dipendenza” che tentano di spiegare la miseria di tutti i “Sud” del mondo a partire da un’idea di sviluppo come un gioco a somma zero, in cui la ricchezza è un dato da distribuire, piuttosto che un processo dinamico di pura creazione di valore.
Una tale concezione dello sviluppo viene limitata da un generico e, sempre in negativo, principio di “sostenibilità”: quando il numero degli uomini sulla terra diventa la cifra della sostenibilità, si coniano termini come “sovrappopolazione” e la barbarie politica, economica e culturale è vicina.
Riflettere sulla formalizzazione del diritto di proprietà privata a partire da un’idea di sviluppo dinamica rappresenta un’opera essenziale per tutti coloro che hanno seriamente a cuore la “promozione” di uno sviluppo stabile e duraturo in tutti “Sud” del mondo, a partire dal nostro Meridione.
Il Centro Studi Tocqueville-Acton, insieme agli amici del “Sudsidiario”, è impegnato nella ricerca accurata e creativa delle vie per elaborare policies orientate allo sviluppo duraturo, in base alle quali, alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa, storicizzare – per usare le parole di Giovanni Paolo II – un autentico “capitalismo”, un'”economia d’impresa”, un'”economia di mercato” o, semplicemente, un'”economia libera” (Centesimus annus, n. 42). Ossia, come “sostenere” uno sviluppo economico intensivo, diffuso e duraturo, caratterizzato dall’accumulazione decentrata e diffusa del capitale (in tutte le sue dimensioni), dal ruolo delle organizzazioni sindacali impegnate affinché gli imprenditori perseguano il reinvestimento produttivo dei loro utili e dalla lotta ai monopoli (tanto pubblici quanto privati), favorendo la crescita della concorrenza all’interno di un chiaro quadro normativo.

*Professore ordinario di “Dottrine Economiche e Politiche” alla Pontificia Università Lateranense
 

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