Come restituire all’Italia autostima, motivazione e volontà

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di Federico Eichberg*  

Manca meno di un anno al 17 marzo 2011 giorno della ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia. Proviamo ad andare con la fantasia a quel giorno ed immaginiamoci cosa proveremmo dinanzi all’ennesima celebrazione “edile” ed “evocativa”, fatta di targhe, lapidi, musei, monumenti di varia natura. Suonerebbe inopportuno e quasi beffardo soffermarsi su celebrazioni retrospettive della narrazione nazionale in un momento in cui più profonde appaiono le lacerazioni del “tessuto nazionale”, in un momento di imbarbarimento e consunzione dei rapporti sociali. In cui forte è la frustrazione di dover constatare che siamo in piena dis-unità, in una nazione segnata da fratture, in cui ad una storia comune non corrisponde l’idea di un futuro da costruire insieme (“memoria e progetto: una nazione non è altro che la somma di questi due fattori”, ricorda Alessandro Campi) . In cui echeggia, sinistro, un clima da <rompete le righe> e <ciascun pei fatti suoi>.
Proviamo ad immaginare cosa rappresenterebbe al contrario una celebrazione non retrospettiva ma prospettiva. Una celebrazione performativa. I 150 anni come occasione per una sorta di nuovo patto fra governanti e governati, fra giovani ed anziani, fra Meridione e Settentrione, fra italiani “nativi” e neoitaliani immigrati. Un nuovo inizio in cui tutti comprendono che dare il meglio di sé conviene a tutti, che rinunciare a qualcosa a favore del bene comune, in uno sforzo simmetrico, rende più alta la qualità della vita. Un impegno al di là delle fazioni politiche, dei regionalismi, degli egoismi settoriali, delle età anagrafiche. L’Italia odierna ha infatti bisogno di una iniezione di passione civile, di cultura della convivenza e del rispetto delle regole. Di fare finalmente ciò che è evidente e condiviso.

Superare la “rimozione dei fenomeni”
Bisogna superare le italiche tentazioni alla rimozione dei fenomeni, alla derubricazione degli eventi. Dirsi con chiarezza che esiste una crisi di legame e di missione in Italia, una introflessione, uno sfilacciamento della sfiducia sociale (abbiamo sentito nei diversi rapporti degli istituti di ricerca succedersi espressioni come «poltiglia di massa», «società a coriandoli» e «mucillagine sociale» in cui si fa una quotidiana «disarmante esperienza del peggio»). Pennellate forti ma efficaci vengono da un editoriale di Galli della Loggia dal titolo “La cultura come risorsa” del 22 luglio 2008 “Il fatto che da 15 anni (…) non cresca il reddito medio è in un certo senso solo la conseguenza ultima di qualcosa di più profondo. L’inerzia italiana non è nella sostanza economica. È piuttosto il venir meno di un’energia interiore, il perdersi del senso e delle ragioni del nostro stare insieme come Paese, delle speranze che dovrebbero tenere legato il primo alle seconde. È un lento ripiegare su noi stessi, un’incertezza che ci ha fatto deporre progressivamente ogni ambizione, ogni progetto. È l’invecchiamento di una popolazione che da anni non cresce; la consapevolezza deprimente che da anni siamo fermi, non facciamo, non creiamo, non costruiamo nulla d’importante così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono. È la sensazione che il Paese non ha più né un baricentro né una meta. E la sensazione che, nel frattempo le differenze sociali, culturali e quindi geografiche fra le varie parti della penisola si stanno appesantendo, che tutti i legami vanno allentandosi: tra le persone come all’interno delle famiglie e con le istituzioni. È la percezione impalpabile che ci stiamo allontanando pian piano dal centro della corrente: come se la storia contrastata ma viva, fertile e felice della Prima Repubblica fosse giunta al capolinea, e non riuscisse a cominciarne nessun’altra”.
Un Paese che non apre gli occhi dinanzi a ciò è un paese ipocrita; un Paese destinato a sentirsi dire addio dai propri figli, desiderosi di vivere altrove, in società trasparenti, con senso civico e consapevoli della necessità di uno sforzo collettivo.
Occorre non rassegnarsi al paradosso odierno per cui non è il giovane che con il proprio lavoro paga la pensione al nonno ma il nonno che con i soldi della propria pensione rende meno disagiata la vita del nipote alla ricerca infinita del primo impiego. Tornano alla mente le parole del maestro Gino Lizio, la sua struggente lettera dal titolo “Intellettuali di Napoli, vi scongiuro di indignarvi” con cui invitava ad “… una reazione all’indifferenza, alla assuefazione, alla pigrizia mentale” ed invocava “una sana inquietudine”.
Non ci si deve rassegnare a quell’Italia che ci consegnano le rilevazioni impietose degli istituti di ricerca, progressivamente trasformatasi nel “Bel Paese del Mal Essere”, con l’80% delle persone che si dicono “sfiduciati e preoccupati”, il 63% che ritiene che i propri figli saranno meno ricchi di noi ed il 72% meno sicuri; il Paese (che era) del sorriso divenuto l’ultimo paese dell’UE per spinta verso il futuro e fiducia negli altri al punto che 7 italiani su 10 ritengono che «gli altri se ne avessero l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede» e il 54% degli italiani ritiene inutile fare progetti per sè e la propria famiglia (dati Eurodap, Censis, Gallup-Doxa, Demos). Come risultato di questo furto del futuro l’Italia è oggi l’ultimo paese dell’UE per tasso di sviluppo demografico (1,29 per donna) insieme alla Germania e dietro la Spagna (1,36). La popolazione italiana è la più vecchia d’Europa, la seconda più vecchia al Mondo dopo il Giappone (dati Osservatorio su popolazione sviluppo, Berlino).
In tale scenario si fanno strada due “vie di fuga”: da un lato cresce vertiginosamente l’emigrazione giovanile (più di 3 milioni di giovani italiani – perlopiù laureati – si sono trasferiti all’estero negli ultimi 15 anni) in un paese in cui il tasso di disoccupazione giovanile supera il 20% e gli stipendi sono i terzultimi dei paesi OCSE; dall’altro crescono fenomeni di fuga alternativa con impennate nell’ultimo quinquennio di consumo di cocaina (+30%) eroina (+20%), droghe sintetiche (+193%), droghe etniche (+300%) , oltreché di alcool.
Questa ricerca di fuga, questa assenza di spinta verso il futuro e di “capitale sociale” condiviso è il risultato di politiche scellerate condotte abbastanza simmetricamente, negli ultimi anni, dalle due fazioni politiche. Una parte consistente del centrodestra ha indebolito negli ultimi 15 anni lo Stato minando il senso delle istituzioni con i continui attacchi (di volta in volta giustizia/magistratura, Quirinale, fisco e, da una specifica componente, istituzioni “romane”, tricolore, Costituzione, inno); il centrosinistra lo ha indebolito con una riforma scellerata dello Stato (riforma del titolo V della costituzione) che ha frammentato le responsabilità e le ha rese disomogenee ai centri di costo, con una paralizzante visione iperconcertativa delle decisioni attraverso l’onnipresenza del sindacato, dell’ambientalismo, ecc…
Sintesi, sul piano etico, di questo contributo tristemente bipartisan alla crisi del nostro paese è la tenaglia di culture in cui l’Italia si trova schiacciata: si potrebbe dire, semplificando che l’Italia è vittima al contempo della cultura del ’68 (anno in cui i movimenti di piazza introducono un’etica contraria al merito, all’autorità, alla disciplina ed all’appartenenza identitaria) e della cultura del ’78 (anno in cui nasce la TV commerciale, simbolicamente, veicolo di un’etica appiattita sul presente, sul successo vistoso ed urlato, sull’ostentazione, sull’esigenza di apparire, sulla tracotanza che prescinde le regole). Queste culture hanno “fiaccato” il nostro Paese proprio in quelle sue caratteristiche di garbo, di cultura civica, di ricercatezza che ne avevano costituito per secoli il tratto dominante, condannandolo invece ad una omologazione al peggio.

Una nuova narrativa nazionale
Riconoscendo questa situazione, ma anche consapevoli delle energie interiori che il popolo italiano ha, lavoriamo per un 150° anniversario che sia realmente un nuovo inizio. “Dobbiamo creare una mobilitazione come se fossimo in guerra, per cui tutti fanno meglio, lavorano di più, studiano di più, inventano di più. Non ci sono più margini per i chiacchieroni, i fannulloni, i ritardatari, i cinici” ricorda il sociologo Alberoni. E aggiunge Piero Ottone: “Se vogliamo indicare il punto di partenza di una rinascita nazionale, non c’è dubbio che esso sia, lo dicono le persone di buona volontà in Italia e fuori, il ritorno al senso morale; la risalita etica, la sferzata che restituisca al Paese stima e fiducia in se stesso, e lo aiuti a uscire dalla sua profonda depressione. Si dirà che il senso etico è come il coraggio: chi non lo ha non può darselo. Forse è così. Ma anche il senso etico, come il coraggio, è contagioso. L’ufficiale che per primo si lancia contro il nemico è sempre stato, attraverso la storia, il simbolo del buon esempio: i soldati lo seguiranno”.
Sarebbe bello in quest’anno progressivamente il formarsi di un’opinione condivisa: prima fra centri di studi, istituti di ricerca e mondo accademico, poi fra rappresentanze sociali e produttive, infine fra poteri locali e centrali. È necessario che tutti comprendano che riforme condivise possono segnare un nuovo inizio, e dissipare la nebbia verso il futuro, a cominciare dalla «sensazione di una politica prigioniera dei propri riti e della propria impotenza – ricorda Massimo Franco – assorbita da questioni marginali, e condannata a perdere di vista scelte strategiche per l’economia del Paese». Ecco, proprio la politica potrebbe cominciare adottando alcune soluzioni semplici e radicali, che vanno attuate complessivamente nei rispettivi ambiti, operando finalmente (con le parole sempre di Alberoni) “una razionalizzazione su cui tutti sono d’accordo, che consideriamo ovvia ma non facciamo”.
Potrebbe appunto cominciare la politica votando in forma bipartisan proposte che entrambi gli schieramenti hanno avanzato per anni lasciandole lettera morta: la riduzione del numero di parlamentari, consiglieri e assessori regionali e comunali e relativi stipendi, il dimezzamento ex lege dei rimborsi elettorali sulla base della media UE, l’obbligo di pubblicità e trasparenza dei bilanci dei partiti, la differenziazione dei compiti delle due Camere (inserendo la rappresentatività delle Regioni), l’ abolizione delle province (all’inizio erano solo 59; oggi sono più di 110), la Riforma dei Regolamenti parlamentari, con incremento delle opportunità di convocare commissioni in sede legislativa e corsie ‘preferenziali’ per i disegni di legge di provenienza governativa.
Una politica che chiede a se’ stessa assume l’autorevolezza per chiedere alle altre componenti istituzionali e sociali: alla Pubblica amministrazione, per esempio, di applicare forme di contratto di lavoro atipiche, la riduzione dei distacchi sindacali, l’incremento della potestà disciplinare in capo ai dirigenti; è in grado di chiedere alle Regioni ex lege di provvedere autonomamente allo smaltimento dei rifiuti prodotti nel proprio territorio attraverso la realizzazione di uno o più termovalorizzatori; di proporre alle imprese – a fronte di un auspicata riduzione delle aliquote – un forte impegno nel campo della ricerca, nelle neoassunzioni di under 30 e negli investimenti nel Mezzogiorno; di fare un patto con le famiglie che preveda in cambio di una fiscalità ad hoc con il quoziente familiare, un impegno straordinario nella sfida educativa; di far sì che parta dal servizio radiotelevisivo e comunicativo-pubblicitario una “Rivoluzione dignitaria” attraverso una ridefinizione dei palinsesti TV, degli standard e dei modelli culturali proposti.
È il momento di soluzioni e non di duelli, di un grande sforzo corale, di un clima politico diverso per una seconda grande metamorfosi del Sistema Italia. Per una ricorrenza dei 150 anni realmente performativa.

*Direttore Relazioni Internazionali Fondazione Farefuturo

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